Dopo aver alimentato i rialzi vertiginosi dei mercati azionari, le politiche ultra-espansive portate avanti nel corso degli ultimi anni delle Banche Centrali stanno cominciando ad inflazionare il valore di gran parte dei prodotti agricoli e delle componenti cruciali della manifattura globale. Dal grano alla soia, dal riso allo zucchero, dalle terre rare ai materiali ferrosi, dal nickel al cobalto, le materie prime si trovano attualmente al centro di quello che Goldman Sachs ha definito «un superciclo di rialzi destinato a protrarsi per qualche anno».
Le cui cause, beninteso, non possono essere ridotte a mere ragioni di politica monetaria. Né ai profondi sconvolgimenti che la pandemia da Covid-19 ha generato sulla logistica mondiale, con la drastica riduzione dei trasporti via cielo e via mare che, limitando lo spazio dedicato alle merci nei cargo e nelle stive degli aerei, ha provocato un’impennata dei prezzi di noleggio dei container puntualmente scaricatasi sul prezzo delle merci stesse.
Va anzitutto evidenziato che la risalita delle quotazioni delle commodity si situa al termine di un decennio di prezzi bassissimi, che hanno privato i Paesi produttori delle risorse e delle motivazioni necessarie a sostenere gli investimenti finalizzati al miglioramento delle loro performance in materia di estrazione, coltivazione, trattamento, stoccaggio, trasporto, ecc.
In ambito agricolo, le ovvie, relative implicazioni sulla qualità e sulla quantità dell’offerta disponibile sono andate a sommarsi alla scarsità degli ultimi raccolti (concausata da un’imponente ondata di siccità) e alle manovre speculative orchestrate da Cargill, Continental Grain, Archer Daniels Midland e Bunge. Controllando il 90% del commercio dei cereali su scala globale, i colossi dell’agri-business dispongono di un’enorme capacità di influenzare l’andamento dei prezzi del grano.
Relativamente al settore delle materie prime ad uso industriale, invece, gli effetti deteriori prodotti dalla penuria di investimenti registrata lungo la fase decennale di bassi prezzi si sono intrecciati con un incremento vertiginoso della domanda di apparecchiature elettroniche verificatasi durante i lockdown imposti dai governi per contenere la diffusione della pandemia da Covd-19.
Risultato: prezzi agricoli e degli elementi di base dell’industria elettronica alle stelle. Più specificamente, tra il gennaio 2020 e il gennaio 2021, la soia è cresciuta del 49%, lo zucchero del 32%, il grano del 31%, l’olio di palma del 24%, il riso del 20%. Per quanto concerne i minerali e i metalli, le terre rare sono aumentate del 106%, i materiali ferrosi dell’85%, il nickel del 63%, il cobalto del 61%, il rame del 50%, il palladio del 16%. Anche il petrolio è tornato stabilmente al di sopra dei cinquanta dollari per barile dopo aver toccato il picco minimo di 17 dollari nell’aprile dello scorso anno, a dispetto della decarbonizzazione contestuale alla “transizione ecologica” – che in realtà di ecologico ha ben poco.
Le crescenti pressioni politiche favorevoli alla cosiddetta “rivoluzione verde”, implicante il passaggio a forme di energia pulita, hanno a loro volta apportato un contributo determinante a far lievitare il prezzo di elementi quali cobalto, grafite, litio, manganese e terre rare, vale a dire le componenti essenziali per le centrali eoliche e per le batterie destinate ad alimentare le automobili a trazione elettrica nel futuro immaginato dai fautori della Green Revolution. Uno dei pilastri del programma politico dell’amministrazione Biden è infatti costituito dall’allestimento di una rete di distribuzione nazionale di energia per rifornire gli autoveicoli elettrici analoga a quella già realizzata in Cina, associato alla costruzione di impianti per lo sfruttamento di energia eolica e idroelettrica nelle regioni degli Appalachi ancora fortemente dipendenti dalle miniere di carbone.
D’altro canto, uno studio realizzato dalla Ubs prevede che, entro il 2030, i ricavi generati dai veicoli elettrici supereranno quelli macinati dalle vetture a combustione (1.158 miliardi di dollari contro 1.073) in conseguenza del graduale livellamento dei rispettivi costi di produzione. Entro il 2022, la spesa aggiuntiva richiesta per la costruzione di auto elettriche rispetto a quelle “tradizionali” dovrebbe calare a 1.900 dollari fino a scomparire completamente alla fine del 2024. Così, vaticina Ubs, la quota di mercato coperta dalle auto elettriche raggiungerà il 17% per il 2025 e il 40% per il 2030.
Il prestigioso istituto elvetico sostiene che questo radicale sconvolgimento nell’industria globale dell’auto produrrà gigantesche ripercussioni sulle catene di approvvigionamento alimentando al contempo vigorose fiammate inflazionistiche, specialmente in seguito all’entrata in vigore delle severe restrizioni sulle forniture di materie prime imprescindibili per l’industria elettronica messe in cantiere dai Paesi produttori. È il caso degli ioni di litio, minerale imprescindibile per la costruzione delle moderne batterie concentrati prevalentemente in Argentina, Australia e Cile, il cui mercato risulta sostanzialmente egemonizzato da una “triade” di compagnie (la sudcoreana Lg Chem, la cinese Catl e la giapponese Panasonic) che si preparano ad incassare enormi profitti dal rincaro della loro commodity di base. Secondo le stime, il volume di mercato complessivo delle batterie agli ioni di litio passerà entro il 2027 da 36,7 a 129,3 miliardi di dollari.
L’altro “collo di bottiglia” destinato ad accrescere i prezzi finali è quello già venutosi a formare rispetto al cruciale settore dei chip. La pioggia di incentivi pubblici che ha caratterizzato il 2020 ha accresciuto drasticamente la domanda di automobili a basso impatto ambientale che montano una vasta gamma di circuiti integrati. L’esaurimento delle relative scorte e la forte domanda che si registra a tutt’oggi pongono concreti problemi di approvvigionamento (al punto da obbligare le case produttrici a dilazionare i tempi di assemblaggio degli autoveicoli), ma lasciano presagire tempi assai luminosi per le aziende coinvolte nella produzione di software. La stessa Ubs ha quantificato in qualcosa come 1.885 miliardi di dollari i ricavi che il settore otterrà entro il 2030.
Le potenziali implicazioni geopolitiche del “superciclo” delle materie prime non possono in alcun modo essere sottovalutate, visto che il carovita ha storicamente funto da detonatore per molte delle rivoluzioni scoppiate nel corso dei secoli. L’esempio più recente è dato dalle rivolte arabe, divampate sulla scia di un aumento tendenziale del prezzo del pane che aveva colpito tutti i Paesi areali divenuti strutturalmente dipendenti dalle forniture di grano dall’estero in conseguenza delle riforme promosse a partire dalla prima metà degli anni ’80 da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale. Coadiuvati da agenzie statunitensi come l’Usaid, i due organismi raccomandarono allora alle nazioni del Terzo Mondo duramente provate dalla crisi del debito di ridurre i sussidi agricoli ai coltivatori locali di grano per concentrare gli sforzi sulla produzione di frutta e verdura destinati all’esportazione. Così, mentre un numero elevatissimo di nazioni perdeva la propria autosufficienza alimentare, ristretti nuclei oligarchici in combutta con i vertici degli apparati di sicurezza acquisivano il controllo delle filiere dell’export dei prodotti agricoli di cui le nazioni povere erano divenute grandi produttrici. Il caso dell’Egitto risulta paradigmatico in proposito, trattandosi di un Paese in cui le produzioni agricole a valore aggiunto sono direttamente riconducibili agli alti gradi dell’esercito e la sollevazione culminata con la caduta di Mubarak scoppiò quando l’inflazione annuale dei prezzi alimentari aveva raggiunto il 19%.
Fenomeni parimenti destabilizzanti potrebbero sorgere in India, dove i contadini si sono riversati più volte per le strade delle principali città del Paese in segno di protesta contro la riforma agricola introdotta dal governo Modi. O nella poverissima Nigeria, nazione in cui il 50% circa del reddito delle famiglie viene speso in cibo che si ritrova attualmente colpita dal maggior rialzo del costo della vita mai verificatosi da quasi vent’anni a questa parte. Molti governi in tutto il mondo, consapevoli delle ricadute sociali che tendono a scaturire da un rapido e consistente aumento dei prezzi alimentari, hanno cercato di contenere il problema attraverso un pianificato gioco d’anticipo. È il caso di Argentina e Russia, approdate alla decisione di contingentare le esportazioni di grano per mantenere bassi i prezzi sul mercato interno, mentre in Turchia è stata avviata un’indagine mirata a individuare le ragioni dell’aumento del 20% dell’inflazione alimentare imprescindibile per la formulazione di una qualsivoglia misura di contrasto.
Allo stesso tempo, la centralità rivestita dalle terre rare rispetto alla rivoluzione tecnologica attualmente in corso conferisce alle nazioni che ne detengono il controllo la possibilità di servirsene come micidiale arma economica. La recente decisione di Joe Biden di firmare un ordine esecutivo che dispone l’approntamento una filiera di approvvigionamento indipendente dalle catene cinesi nasce dalla concreta prospettiva che la Cina, principale produttore di terre rare al mondo, interrompa di colpo le forniture agli Stati Uniti. La stessa Unione Europea, fortemente dipendente dai produttori di batterie asiatici, ha predisposto – con il consueto ritardo – piani industriali mirati alla realizzazione di impianti di fabbricazione sul suolo continentale.
L’inflazione delle materie prime sembra quindi destinata ad incidere in profondità sugli equilibri geopolitici mondiali, e a produrre ripercussioni fortemente negative sulla vita di miliardi di persone in tutto il mondo.
FONTE: http://osservatorioglobalizzazione.it/osservatorio/il-superciclo-delle-materie-prime/
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