Di Andrea Muratore
Il ciclismo, per dirla con Indro Montanelli, “lo sport di un popolo che, nella corsa verso il progresso meccanico, è rimasto alla bicicletta, tappa intermedia fra il cavallo e l’automobile, ritrovato artigiano e arnese di famiglia”, è stato un fondamentale collante sociale nell’Italia repubblicana sorta sulle ceneri della sconfitta della Seconda guerra mondiale. Nel Paese che provava a riprendersi dalla sconfitta lo stretto e inscindibile legame che lega una competizione come il Giro d’Italia alla storia contemporanea del nostro paese attraverso una simbiosi continua, che ha permesso di leggere nella “Corsa Rosa” lo specchio dei sentimenti, delle ambizioni, degli ideali e delle speranze che hanno animato nel corso dei decenni i nostri connazionali. Il Giro del 1946 fu una grande operazione strategica ancor prima che sportiva: toccò tutta Italia, ne celebrò la ritrovata unità, portò un messaggio estremamente significativo di ripresa nazionale.
Certi legami riescono a rompere la loro stretta contingenza temporale e assumono una rilevanza superiore, come testimonia la significativa attualità della figura di Gino Bartali, un fuoriclasse del ciclismo eroico della prima metà del Novecento che ha saputo a tempo debito mettere le sue pedalate al servizio di ideali superiori, conquistandosi un rispetto ancora oggi sentito e vissuto in particolar modo nella sua nativa Toscana. Una figura che va oltre lo sport ed è stata in grado di entrare nell’immaginario collettivo, nel “pantheon” civile italiano. A perenne ricordo dell’impresa più grande di Bartali vi sono oggi due alberi e un’onorificenza postuma, che testimoniano l’impegno che Ginettaccioprofuse in piena seconda guerra mondiale, in un’Italia sconvolta, invasa, divisa e umiliata, per proteggere centinaia di cittadini ebrei dallo sterminio nazista.
Ottocento le vite salvate, secondo gli studiosi, dalle pedalate con cui Bartali, facendo la spola tra l’Umbria e la Toscana, contribuì a distribuire documenti, fotografie e lettere dell’organizzazione clandestina di resistenza all’Olocausto, opportunamente occultati nella sua bicicletta, per conto della rete creata dall’ arcivescovo di Firenze Elia Angelo Dalla Costa e dal rabbino Nathan Cassuto. Bartali, inquadrato come coscritto nella Guardia Nazionale Repubblicana della RSI, potè sfruttare la sua fame e il suo grado per passare indisturbato. Conseguendo le sue vittorie più grandi, premiate recentemente in maniera doverosa e toccante: da un lato, la Medaglia d’Oro al Valore Civile attribuitagli nel 2005, cinque anni dopo la sua morte, dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi; dall’altro, gli alberi parte di due distinti “Giardini dei Giusti”, i memoriali viventi degli uomini che salvarono vite durante l’Olocausto e altri genocidi della storia del Novecento, a Padova e a Gerusalemme, rispettivamente piantati nel 2011 e nel 2013. ““Il bene si fa, ma non si dice. E certe medaglie si appendono all’anima, non alla giacca”, diceva sempre Bartali, la cui avventura umana è stata narrata splendidamente dagli scrittori canadesi Aili e Andres McConnon in La Strada del Coraggio.
Pedala ancora tra noi, Gino Bartali, pedala sempre più incessantemente mano a mano che l’Italia si allontana dal suo tempo, lanciata in corsa sulla strada di una modernità che troppo spesso ha significato divisione, spaesamento e incertezza. Pedala ancora nell’Italia di oggi il ricordo dell’uomo che, assieme a Fausto Coppi, a Edoardo Mangiarotti, al Grande Torino fu il simbolo sportivo dell’Italia rinascente: l’Italia che nel Giro vedeva il suo specchio, un fattore di ricostruzione dell’unità nazionale, un simbolo che rendeva complementari le preziose diversità delle realtà locali del nostro paese, ma anche molto di più.
Ginettaccio ha identificato una stagione epica del ciclismo italiano, l’ultima in cui «si correva per rabbia o per amore», e ha al tempo stesso incarnato l’autentica essenza dell’Italia profonda, entrando nell’immaginario collettivo della sua generazione come uomo di saldi valori morali, complementari alle doti tecniche e al carisma personale che ne hanno fatto un indiscusso fuoriclasse delle due ruote. Non è infatti un caso che Indro Montanelli, nei suoi resoconti dal Giro d’Italia, abbia paragonato Bartali nientemeno che ad Alcide De Gasperi, incensando in tal modo il campione nato a Ponte a Ema nel 1914 del parallelismo con lo stimato statista trentino.
E proprio con De Gasperi Bartali ebbe un intenso colloquio nella giornata del 14 luglio 1948 quando l’Italia, reduce dell’attentato a Palmiro Togliatti, si trovava a pochi passi dalla guerra civile mentre Bartali, oltralpe, inseguiva dopo dieci anni il trionfo al Tour de France. I fatti sono noti: dal 15 al 18 luglio 1948, dopo che l’attentato a Palmiro Togliatti compiuto da Antonio Pallante nella giornata del 14 aveva portato a intense manifestazioni di piazza nelle principali città italiane e a duri scontri tra i militanti comunisti e le forze di polizia, il trentaquattrenne Bartali si scatenò sulle strade del Tour de France, conquistando tre tappe consecutive e ribaltando a suo favore una corsa che sembrava destinata a finire nelle mani dello scoppiettante Louison Bobet.
L’entusiasmo e l’attenzione galvanizzati dalle imprese di Bartali in Francia contribuirono a rasserenare l’orizzonte interno italiano: questi non fu chiaramente il risolutore di ultima istanza degli scontri, ma è sicuramente vero affermare che uomini e donne posti ai lati opposti delle barricate, governativi e oppositori, scioperanti e poliziotti, democristiani e comunisti erano uniti da poche cose più che dal comune sostegno a “Ginettaccio”. Non è vero che Bartali era “democristiano” e Coppi era “comunista” o che i due fuoriclasse avessero connotazioni nette e di parte. Piuttosto, come ha raccontato Curzio Malaparte in Ginettaccio e l’Airone, “Coppi [era] il campione del nuovo mondo partorito dalla guerra e dalla liberazione: egli rappresenta[va] lo spirito razionale, scientifico, il cinismo, l’ironia, lo scetticismo della nuova Europa, l’assenza d’immaginazione delle nuove generazioni, il loro credo materialista. In Bartali, nato da una famiglia di agricoltori toscani, prevale[va] il contadino, con la sua mistica elementare, la sua fede in Dio, il suo attaccamento ai valori tradizionali della terra”. Due Italie complementari, non conflittuali, a cavallo tra modernità e tradizione, per due figure capaci tanto di unire quando prese singolarmente quanto di dividere nei momenti in cui si scontravano sulla strada. Né Bartali volle mai colorarsi politicamente: non lo aveva fatto nel 1938, quando il regime fascista provò a connotare in senso “littorio” il suo primo trionfo al Tour de France, non aveva mostrato volontà di azione politica durante la guerra (fu lo spirito di umanità e non la presenza di forti ideali antifascisti a guidare la sua azione eroica) e non cercò protezioni politiche ai tempi della neonata Repubblica. Questo significava essere figure trasversali.
A vent’anni dalla morte di Bartali, avvenuta nel 2000, la sua figura appare così fuori dal tempo da risultare un esempio attuale. Malaparte scrive che Ginettaccio fu prima di tutto «un uomo nel senso antico, classico e anche metafisico della parola […] un mistico che confida[va] soltanto nel proprio spirito e nello Spirito Santo”, in altre parole un italiano vecchio stampo che seppe, sulla strada e nella vita, diventare un punto di riferimento. Il carattere schivo, riservato e introverso di Bartali, come nel caso di personaggi come Walter Bonatti, non ha fatto altro che dare ulteriore risalto e valore ai traguardi da lui ottenuti: la visibilità cercata non vale il rispetto conquistato con piccoli e grandi gesti compiuti con umiltà di spirito.
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