Di Lorenzo Villani
Nel ’67 Herbert Marcuse partecipò ad un incontro organizzato dal Comitato studentesco dell’Università di Berlino Ovest nei giorni 10 e 13 luglio. Nel corso di tali appuntamenti venne delineandosi un dibattito incentrato sulla tematica del rapporto fra utopia e continuità della storia. Iniziò ad emergere con chiarezza la questione della fine delle utopie, ed è interrogandosi su tale punto che Marcuse anticiperà di trent’anni quella che viene oggi definita come “la fine delle ideologie“, intesa come l’incapacità da parte della moltitudine di concedere spazio all’idea in quanto entità astratta. La fine delle utopie non rappresenta però una resa, essa è anzi una flessione, un indebolimento della massa.
La società moderna è caratterizza dalla sua capacità di elaborazione dei cambiamenti che interessano tutti i settori e segmenti che la compongono. Oggi,l’intera sfera del sociale è interessata dal pluralismo, fattore che fa riferimento al vasto spettro di alternative che l’individuo ha a disposizione nell’interfacciarsi con la realtà che lo circonda: in tale dimensione, il singolo è chiamato a definire la sua personalità, i suoi gusti, le sue preferenze, in relazione alla vasta gamma di opzioni che la società del tardo capitalismo gli offre e in riferimento, poi, alla sua gerarchia di preferenze.
Da ciò deriva che il mondo ha la capacità di orientarsi verso la disgregazione, ossia tendere verso l’imperfezione astratta e la negatività, o rendere perfetta la realtà del sociale che lo abita. In tale ambito si colloca il concetto di utopia, inteso come ambizione verso la realizzazione di istanze che, a causa di vincoli oggettivi e soggettivi, non vedranno mai applicazione e realizzazione.
La fine dell’utopia
La fine dell’utopia, secondo Marcuse, coincide con la fine della storia. La società moderna è ormai giunta ad un livello di progresso che può realizzare gran parte dei desideri umani, collettivi e individuali. La nozione di utopia va inquadrata in due prospettive differenti. La prima accezione utopica interessa quelle ambizioni di cambiamento che non vedranno mai realizzazione a causa di vincoli fissati dall’uomo. Tali vincoli interessano l’assetto istituzionale del sistema socio-politico in cui siamo immersi. A conferma di tale affermazione risulta funzionale fare riferimento al banale esempio che vede il desiderio da parte degli individui ad eliminare la fame nel mondo o i conflitti armati. Desideri, questi, che non potranno essere realizzati: non perché non si ha la possibilità materiale per porre fine a tali fenomeni, ma perché la loro esistenza è motivata dalla precisa volontà di rivitalizzare l’assetto istituzionale e l’equilibrio della società del tardo capitalismo. Sono dunque funzionali al mantenimento dello stato di cose presente. Trattasi dunque, in tale prima dimensione, di un limite ben determinato, e non di un’utopia. L’interesse nel mantenimento degli attuali rapporti di forza presenti in una società scavalca la volontà di risoluzione delle principali problematiche della moderna società post-industriale.
La seconda accezione, quella che Marcuse predilige, si configura come utopia in senso lato. Essa riguarda cambiamenti impossibili, irrealizzabili. Si può dunque far riferimento alla volontà di rivivere momenti storici determinati, tornare al passato, all’età dell’oro o al Rinascimento; trattasi, così, di volontà inattuabili in termini di pratica. Questa è utopia, concepita come extraterrena, metafisica, astorica.
Tematica di rilievo è l’automazione, a metà strada fra l’utopia e il realizzabile. Questo è un tema che veglia sulla società industriale fin dai suoi esordi. La prospettiva secondo cui il lavoro umano arrivi a risultare superfluo al punto tale da cedere la forza-lavoro alla cibernetica si colloca a metà strada fra l’attuazione e la più distante utopia. L’automazione, per Marcuse, non avrà luogo in una società i cui tratti caratteristici sono lo sfruttamento, le diseguaglianze, il profitto. Nel regime del conformismo si necessita di consumatori, in primis, e poi di forza lavoro. A sostegno di tale tesi è centrale il contributo di Marx che, come ha osservato nel Capitale, afferma: “un’automazione completa del lavoro socialmente necessario è inconciliabile con la conservazione del capitalismo.”
Riferito a tale tendenza, la nozione di “automazione” non è che una formula abbreviata.
“La società repressiva continua incessantemente a riprodurre nei suoi membri i bisogni che essa stessa stimola e soddisfa […] Questa continuità dei bisogni repressivi è dunque l’ostacolo che finora ha impedito il salto dalla quantità alla qualità di una società libera” (2).
Riflessioni conclusive sulla nuova società
Il fattore principale che nega la trasformazione delle condizioni sociali è l’assenza del bisogno di trasformazione.
Marcuse osserva come Marx aveva individuato nel proletariato la classe sociale rivoluzionaria, in quanto libero dai bisogni repressivi del capitale e del consumo. Il proletariato si presentava come autonomo. Oggi, nei regimi del consumo, questa stessa classe sociale ha perso la sua indipendenza: ha assorbito ed ereditato misure analoghe a quelle che si proponeva di combattere. In linea con quanto affermato precedentemente, Adorno e Horkheimer arrivarono ad affermare che il depauperamento economico profetizzato da Marx ai danni della classe lavoratrice non si era verificato, bensì aveva avuto luogo un impoverimento sul piano culturale. Il capitalismo del benessere produceva dunque un depauperamento intellettuale. A tale proposito, l’opera L’uomo a una dimensione è centrale per comprendere il modo in cui Marcuse approfondisce tale dibattito, supportando la tesi secondo cui le classi lavoratrici vengono private dei propri mezzi di espressione e dei propri strumenti di critica sociale, i quali vengono gradualmente sostituiti da armi di intrattenimento e di svago, nonché mezzi di distrazione di massa.
(1)H.Marcuse, La fine dell’utopia, La scuola di Pitagora editrice, 2008, Napoli, p.3-4.
(2)ibidem.
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