Di Giuseppe Gagliano
Leggendo e rileggendo noti e celebrati saggi di politica internazionale e di scienze strategiche non possono non venire in mente le considerazioni di un grande maestro di cui abbiamo trattato proprio su queste pagine e cioè di Noam Chomsky in relazione ai documenti del Pentagono noti come Pentagon papers relativi alla guerra del Vietnam. Ci riferiamo ad un saggio oramai dimenticato e che invece andrebbe riletto soprattutto pensando alla Guerra dell’Iraq e dell’Afghanistan. Ci riferiamo al saggio “Per ragioni di Stato” edito dalla Einaudi nel lontano 1977.
Lo studioso americano ricordava come i documenti del Pentagono fossero uno studio sui processi decisionali che hanno condotto alla guerra e niente di più. Tuttavia non trattavano delle conseguenze delle decisioni, se non dal punto di vista del successo militare dei militari e dei costi. Ma naturalmente non c’era nessun riferimento alle bombe che straziano le carni con minuscole frecce metalliche studiate appositamente per provocare il massimo della sofferenza; nessun riferimento ai campi agricoli sconvolti dai crateri delle bombe o delle risaie avvelenate né tantomeno potevano fare riferimento all’odore delle carni bruciate. Ciò che i documenti del Pentagono trasmettono è il distacco dalla realtà, determinato dalla tranquillità e dall’isolamento felpato degli uffici governativi dove non si vedono le urla strazianti delle vittime ma solo il biancore delle cartelle dai margini ben allineati. Fra i numerosi travisamenti che emergono dei documenti del Pentagono certamente uno dei più significativi è quello relativo al fatto che l’America viene presentata non come un soggetto politico di perturbazione del sud-est asiatico ma come un attore politico la cui azione è volta alla pace e all’ordine. In questa ottica gli Stati Uniti diventano vittime e non gli artefici di un’aggressione. Infatti, secondo questa ottica della realtà capovolta, gli Stati Uniti si limiterebbero a reagire agli attacchi delle grandi potenze rivali che hanno la responsabilità – sia detto in senso ironico – di non piegarsi alla volontà dello zio Sam.
Ci sembra superfluo sottolineare come questa narrazione venga oggi riformulata da Donald Trump e da Mike Pompeo in relazione alla proiezione di potenza cinese in prima battuta e, in seconda battuta, a quella della Russia. La ricerca di un nemico al quale contrapporsi è, non solo, fondamentale all’interno di una interpretazione della politica internazionale di tipo realistico ma è altrettanto fondamentale per la crescita dell’industria e del mondo della finanza. Sia sufficiente pensare all’allargamento dell’Alleanza atlantica a paesi dell’est che ha notevolmente incrementato l’industria militare americana.
D’altronde – se il lettore ci passa la provocazione – l’industria ha bisogno della guerra per assicurarsi il consumo dei suoi prodotti, ha bisogno della distruzione per continuare nella propria produzione. Proprio per questa ragione gli strumenti e cioè le armi da mezzo sono divenuti un fine. Èd certo un paradosso che le democrazie, sul piano della politica internazionale, continuino ad essere radicalmente Schmittiane e cioè a basarsi sulla politica dell’amico/nemico come dimostrano egregiamente le demonizzazioni di Noriega, Milosevic, Saddam Hussein e Osama Bin Laden la maggior parte dei quali ex alleati degli Stati Uniti.
Proprio per questa ragione lo studioso americano ricorda come già Thomas Jefferson ammoniva i cittadini a non perdere d’occhio gli affari pubblici altrimenti il governo ben presto si sarebbe trasformato in un branco di volpi e – aggiungiamo noi – anche di lupi. Sia a causa del segreto di Stato sia a causa dei privilegi dei poteri dell’esecutivo di non informare né il congresso né tantomeno la società civile fu possibile per lungo tempo condurre la guerra in Vietnam. Non a caso proprio Kissinger riuscì a gestire la politica estera in modo rigidamente accentrato lontano da sguardi indiscreti. Proprio per evitare tutto ciò è fondamentale l’esistenza della stampa libera come altrettanto fondamentale è tutelare il Primo emendamento. Quanto più la stampa è imbavagliata da intimidazioni o anche solo dalla concentrazione del potere e della ricchezza tanto più sarà difficile accertarsi della verità. Per tutti coloro che sono al potere – sottolinea lo studioso americano – appare ovvio che la società civile vada solo blandita e manipolata, terrorizzata e tenuta nell’ignoranza in maniera tale che le oligarchie dominanti possano operare senza remore nell’interesse della nazione cioè nel loro interesse come d’altra parte aveva esplicitamente affermato Lippmann nel saggio “L’opinione pubblica”. Come ebbe modo di ricordare opportunamente Rumiz nel saggio “Maschere per un massacro” ciò che si trasforma in carne da cannone è lo stesso imbonimento, la stessa inerte apatia e la stessa acquiescienza che ci porta a comprare lo stesso prodotto o a votare in massa il primo sciocco che scende in campo promettendoci di risolvere tutti i nostri problemi in cambio del nostro voto.
Proprio grazie all’uso della stampa libera e facendo proprio il motto latino – caro a Kant – sapere aude non dobbiamo mai scordare che la guerra è sempre stata un business per il mondo dell’industria e per quella della finanza. Proprio per questo diventa fondamentale rivolgere l’ attenzione alla spartizione e alla occupazione dei posti chiave e delle commesse strettamente legate alla ricostruzione e allo sviluppo economico a conclusione di una guerra. In altri termini in modo molto brutale ma altrettanto realistico dobbiamo domandarci quando inizia e si conclude una guerra: chi ci ha guadagnato e chi ci guadagnerà?
Alludiamo per esempio all’Iraq dove, dietro esplicita richiesta americana, gran parte della spartizione del bottino è stata riservata agli amici degli amici (per usare una espressione tratta volutamente dal gergo mafioso). Da un lato non possiamo non osservare gli stretti legami tra determinati ruoli istituzionali e le grandi corporations finanziarie come nel caso della famiglia Bush e del gruppo Carlyle. In secondo luogo esistono stretti legami tra i ruoli istituzionali e determinate imprese multinazionali come nel caso del consigliere per la sicurezza nazionale Rice e la Chevron. In terzo luogo una delle costati delle guerre attuali è il legame stretto tra incarichi militari e industria bellica: si pensi a tale proposito al fatto che Gordon England, già executive della General Dynamics Corp., principale contrattista della marina, è stato segretario della marina militare. Oppure pensiamo a James Roche già executive della Northrop Grumman e segretario della Aeronautica. Od ancora a Pete Aldridge già sottosegretario alla difesa per l’acquisizione di armamenti per il Pentagono e divenuto poi membro del consiglio di amministrazione della Lockheed Martin. Oppure cosa dire dei legami tra società di sicurezza private e ruoli istituzionali come nel caso di Dick Cheney già amministratore delegato della Halliburton e Vice presidente degli Stati Uniti? O che dire degli stretti legami tra incarichi ufficiali all’interno dell’esercito e i ruoli dirigenziali all’interno delle PMC come nel caso di Carl Vuono, già capo di stato maggiore americano e presidente della Mpri-Military Professional Resources Incorporated? Per quanto queste osservazioni possono risultare provocatorie in realtà rientrano nella tragica normalità della Storia. Pensiamo al fatto, per esempio, che i campi di concentramento erano amministrati secondo una logica di tipo aziendale. Infatti Auschwitz fu un centro economico di produzione dove operavano a stretto contatto alcune fra le più grandi industrie della Germania e cioè la Krupp, la Siemens, la Deutsche Ausrustungswerke e la IG Farbern. La ditta Topf per esempio fece costruire gli enormi crematori multipli dei lager e il colosso IBM non si fece tanti scrupoli nel commerciale con il paese nemico ma svolse un ruolo cruciale nella organizzazione dell’Olocausto come ha dimostrato il giornalista investigativo americano Edwin Black nel saggio “L’Ibm e l’olocausto. I rapporti fra il terzo Reich e una grande azienda americana“.
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