Intervista di Andrea Muratore a Stefano Graziosi
Les jeux sont faits: ora Donald Trump e Joe Biden hanno acquisito ufficialmente la nomination per la corsa alla Casa Bianca. Quali sono i tratti salienti che hai colto dallo svolgimento delle convention dei due maggiori partiti Usa?
Il tratto principale della convention democratica è stato quello di un viscerale anti-trumpismo: l’unico collante che, al momento, sembra di tenere insieme un partito internamente spaccato come quello democratico. Puntare quasi tutto sull’opposizione al presidente in carica ha avuto un senso, per mantenere aleatorio un programma che – qualora fosse stato affrontato nel dettaglio – avrebbe determinato il riesplodere delle tensioni intestine: dalla convention non è del resto emerso concretamente dove il ticket democratico si collocherà su ordine pubblico, fratturazione idraulica, riforma sanitaria e – più in generale – recupero dei colletti blu della Rust Belt. Trump, di contro, ha utilizzato la convention repubblicana per cercare di ribaltare la narrazione cucitagli addosso dai suoi avversari: in questo senso, i vari interventi hanno valorizzato l’immigrazione legale, le minoranze etniche e la sua politica estera. A livello generale, la convention repubblicana ha cercato di conciliare due toni differenti: uno energico, volto a mantenere la presa sulla parte antisistema dell’elettorato trumpista; e uno più istituzionale, volto ad attrarre il voto degli elettori indipendenti.
I democratici arrivano alla corsa alla Casa Bianca col fiato tirato. Di fatto, il loro federatore è apparso il Presidente, visto come l’avversario da battere. Come ha proceduto Biden nella mediazione con la Sinistra interna? Personalità come Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez avranno maggior voce in capitolo su temi concreti rispetto al ridotto spazio concesso loro alla convention?
Credo che la convention democratica non sia riuscita nell’intento di federare internamente l’asinello. A dimostrazione di ciò stanno del resto le polemiche, consumatesi a poche ore dall’inizio dell’evento, tra la deputata Alexandria Ocasio-Cortez e l’establishment dell’asinello. Lo stesso Bernie Sanders ha lamentato un’eccessiva presenza di figure legate alle alte sfere del partito. Esattamente come nel 2016, anche stavolta l’establishment ha di fatto chiuso la porta in faccia alla sinistra antisistema. E, al di là di alcune operazioni di maquillage politico, l’ha estromessa dalle questioni programmatiche dirimenti. Basti pensare al fatto che la convention sia stata monopolizzata da nomi come Hillary Clinton, Bill Clinton, Barack Obama, Michelle Obama, John Kerry, Nancy Pelosi, Andrew Cuomo e Mike Bloomberg. Senza poi dimenticare Colin Powell: una figura che – insieme a Bloomberg – non gode di eccessiva simpatia tra i sandersiani. Non sono sicuro che l’anti-trumpismo basterà per mettere definitivamente a tacere questi (non certo nuovi) dissidi intestini. E per Biden c’è il forte rischio che, come quattro anni fa, una parte dei sandersiani possa alla fine voltare le spalle al Partito Democratico.
Date le condizioni in cui è maturata la sua ascesa e il compattamento dell’establishment di partito, possiamo dire che Biden rappresenta un candidato politicamente debole? Quanto sarà importante per il Presidente l’apporto di Barack Obama alla sua campagna elettorale?
La debolezza di Biden è evidente sotto svariati punti di vista. Sotto il profilo programmatico, è troppo ambiguo e alcune delle sue proposte (penso solo al dossier cinese) cozzano irrimediabilmente con le posizioni da lui stesso tenute in passato da senatore e da vicepresidente. Molti dubbi circolano poi sul suo stato di salute: un tallone d’Achille non certo di poco conto. Più in generale, è un candidato che manca di visione: fatta eccezione per l’anti-trumpismo, l’ex vicepresidente si è al massimo spinto a vagheggiare improbabili restaurazioni dell’obamismo. Un po’ poco per un candidato alla Casa Bianca. Sotto questo aspetto, non è esattamente chiaro quale sarà l’impatto del ruolo di Obama. Ricordiamo che già nel 2016 l’allora presidente si spese molto a favore di Hillary Clinton. E abbiamo visto come è andata a finire. È pur vero che Obama riscuota simpatia da parti consistenti dell’elettorato americano. Ma una sua eventuale sovraesposizione rischia di rafforzare l’immagine di un candidato – Biden – irrimediabilmente legato al passato. Un fattore che assai spesso gli americani hanno mostrato di non gradire troppo.
L’ex Presidente afroamericano è sceso in campo in una fase cruciale per gli equilibri istituzionali del Paese. Al contempo, Trump ha più volte sollevato la questione del presunto Obamagate/Spygate: come influenzeranno la campagna elettorale questo e altri scandali?
Bisognerà innanzitutto vedere se il procuratore John Durham reperirà prove di comportamenti illeciti e controversi da parte dell’amministrazione Obama. Per il momento, numerosi documenti desecretati dalla fine dello scorso aprile hanno messo in evidenza molte storture, commesse dall’Fbi, nel condurre l’indagine sul Russiagate. E gli stessi vertici dell’amministrazione Obama non ne stanno uscendo troppo bene. Da un punto di vista eminentemente elettorale, è probabile che la cosiddetta questione Obamagate non sarà destinata a spostare troppi voti, ma è comunque utile a Trump per compattare la propria base, alimentare la polemica con i media ostili e ribaltare la delegittimazione che molti suoi avversari hanno ripetutamente lanciato contro la sua vittoria nel 2016.
Nelle ultime settimane abbiamo assistito al tentativo democratico di egemonizzare contro il Presidente le proteste seguite alla morte di George Floyd, che stanno caratterizzando l’estate statunitense. Cavalcare la retorica “antirazzista” per un movimento che ha avuto chiare radici nelle problematiche sociali che attanagliano il Paese ed è stato poi deviato dalle frange più estremiste e facinorosa può rivelarsi un boomerang per i Dem?
Sì può diventarlo. Il problema di gran parte del Partito Democratico è che ha abbracciato in modo troppo ideologico il movimento di Black Lives Matter, senza adeugatamente distinguere tra proteste legittime e disordini. E questo può rivelarsi un problema agli occhi di quell’elettorato che ha vissuto i disordini sulla propria pelle: pensiamo solo all’occupazione del centro di Seattle, lo scorso giugno, durate quasi un mese e bloccata solo quando – dopo varie sparatorie – ci sono stati feriti gravi e morti (afroamericani). Biden sull’ordine pubblico risulta totalmente evasivo. Ha atteso del tempo prima di dirsi contrario al taglio dei fondi alla polizia. Poi, quando lo ha fatto, si è ritrovato sconfessato da alcuni importanti sindaci del suo stesso partito (penso a de Blasio a New York e a Garcetti a Los Angeles). Senza poi contare che assai raramente il candidato democratico si è espresso chiaramente in materia di disordini. L’ordine pubblico è uno dei temi centrali di questa campagna elettorale. E, su tale fronte, i democratici hanno perso molto terreno (anche perché le città con i maggiori problemi in merito sono amministrate proprio dall’asinello: un fattore che potrebbe avere delle ripercussioni sul voto novembrino).
Sul fronte repubblicano, dal Grand Old Party sembra di essere entrati nel Trump Old Party. L’impronta del Presidente è oramai indelebile e destinata a proseguire oltre la sua parabola presidenziale? Come giudichi le accuse di chi, come l’ex governatore dell’Ohio Joe Kasich, ritiene che Trump abbia “tradito i valori conservatori” e di chi denuncia l’ascesa di teorie del complotto come QAnon come conseguenza del trumpismo?
È probabile che Trump stia cercando di inaugurare una nuova dinastia politica: obiettivo che potrebbe rivelarsi rischioso, visti i precedenti storici (dai Kennedy ai Clinton, passando per i Bush). Dall’altra parte, il presidente tende a circondarsi di parenti anche per una questione di sfiducia verso alcuni collaboratori. Per quanto riguarda la fronda dei repubblicani anti-Trump, essa continua ad esistere ma ha perso molta forza, rispetto al 2016. All’epoca il fronte degli oppositori interni vantava ancora un seguito elettorale: seguito che, oggi, risulta invece impalpabile. John Kasich, Colin Powell, Jeff Flake e lo stesso Lincoln Project difficilmente riusciranno a spostare voti in modo significativo. Certo: come quattro anni fa, anche adesso i repubblicani anti-trumpisti dicono che l’attuale presidente abbia tradito i valori repubblicani. Per il momento tuttavia l’inquilino della Casa Bianca sembra aver siglato una tregua con l’establishment del partito, come testimoniato dal discorso di Nikki Haley alla convention. Va da sé che, in caso di vittoria novembrina, il trumpismo tenderà a rafforzarsi nell’elefantino. In caso contrario, scoppierà una nuova guerra intestina, come quella del 2016. Infine, credo che sia riduttivo ricondurre esclusivamente un fenomeno politicamente e socialmente complesso come il trumpismo a QAnon.
Il Presidente, nelle ultime settimane, sembra aver ripreso in mano il pallino del gioco dopo che nei mesi scorsi il Covid-19, l’ondata di proteste e la recessione economica avevano messo in discussione la sua capacità di leadership. Trump punta ad apparire, in vista di novembre, come il grande normalizzatore, l’uomo d’ordine capace di portare l’America oltre la crisi: le nuove linee sull’uso dei presidi anti-coronavirus, le misure economiche messe in campo scavalcando il Congresso, gli appelli alla maggioranza profonda del Paese ci presentano un Trump “di governo”. Trump come Nixon punta alla “maggioranza silenziosa?”
È così. Da quando questa campagna elettorale è iniziata, Trump ha spesso guardato al duello del 1972 tra Richard Nixon e George McGovern, presentando sé stesso come baluardo dell’ordine. Più in generale, credo che il Leitmotiv della campagna del 2020 sia il concetto di “sopravvivenza”: i cittadini lottano per la propria sopravvivenza sanitaria (coronavirus), economica (crisi occupazionale post Covid) e fisica (disordini e rivolte in svariate città americane). Bisognerebbe dunque vedere, su questi tre fronti, chi – tra i due candidati – sia più attrezzato a rispondere con efficacia. Sul piano dell’ordine pubblico, Trump è avanti: ha sin da subito sposato una linea (nixoniana) “law and order”, laddove Biden si è mostrato ambiguo e titubante. Un discorso analogo vale per l’economia: è vero che, a causa del Covid, la disoccupazione è esplosa e il Pil è crollato. Tuttavia gli americani, almeno per ora, non sembrano incolpare il presidente di ciò. E, anzi, da maggio a luglio, il tasso di disoccupazione – pur restando elevato – è iniziato a scendere. Del resto, secondo molti sondaggi, gli elettori continuano a fidarsi maggiormente di Trump in materia di ripresa economica. Il fronte del coronavirus è quello più complesso. Trump ha indubbiamente commesso degli errori e lo stesso Biden è considerato, in base ai sondaggi, più affidabile su questo punto. Resta comunque il fatto che la gestione della pandemia, condotta dalla Casa Bianca, non sia neppure il disastro assoluto che alcuni hanno dipinto. Il presidente sta cercando di recuperare terreno e, in tal senso, la ricerca del vaccino svolge ovviamente un ruolo fondamentale. Insomma, su tre fronti di scontro, Trump è avanti in due e sta lottando per risalire la china in uno. Tutto questo mi porta a ritenere che il presidente sia al momento favorito alle elezioni del 3 novembre, per quanto – ovviamente – la partita sia ancora del tutto aperta.
Meno pressante nel discorso politico rispetto al 2016 appare essere la politica estera: eppure, Trump mira a giocare appieno anche in questo terreno le sue carte, come dimostra l’enfasi data all’accorda tra Emirati e Israele; come divergono la visione del Presidente e le proposte di Biden?
Biden si è per ora limitato a dire di voler ripristinare i legami con gli alleati storici, vagheggiando inoltre nebulose restaurazioni dell’obamismo (per esempio sul fronte iraniano). A livello generale, è abbastanza probabile che l’ex vicepresidente voglia puntare maggiormente su prospettive di internazionalismo liberale, laddove Trump è spostato più verso un’ottica realista, di stampo kissingeriano. Credo che, sul fronte della politica estera, l’argomento di maggiore impatto per questa campagna elettorale sarà la questione cinese, soprattutto alla luce del fatto che – a causa del coronavirus – ampie quote di elettori americani vedono oggi con poca simpatia Pechino. Non sarà un caso che, ormai da mesi, sia Trump che Biden si stiano accusando reciprocamente di eccessiva arrendevolezza verso la Repubblica Popolare. Eppure, al di là della retorica da campagna elettorale, il loro approccio è molto differente. Trump punta poco sui diritti umani e cerca invece di colpire la Cina sul versante commerciale, essendo convinto che solo attaccando su questo fronte il dragone possa essere domato. Biden aderisce invece alla strategia che fu di Bill Clinton negli anni ’90: dure critiche sul piano dei diritti umani ma atteggiamento di accondiscendenza su quello commerciale. Clinton era del resto convinto che, coinvolgendo Pechino nel Wto, sarebbe stata favorita un’evoluzione in senso liberale della politica interna cinese. Auspicio poi non realizzatosi: non solo il governo cinese ha rafforzato l’accentramento di potere nelle proprie mani, ma Pechino si è trasformata in una spietata concorrente per l’economia americana. Spesso con mezzi sleali.
In conclusione, vorremmo chiederti un commento generale sullo stato di salute della democrazia americana. Che insegnamento pensi si debba trarre dal continuo divaricamento delle faglie politiche, economiche e sociali che mette a repentaglio l’unità degli States e che prosegue da almeno un decennio? Le elezioni rischiano di spaccare nuovamente l’America?
La polarizzazione politica che caratterizza gli Stati Uniti non è un fenomeno nuovo. Si tratta di un problema che affonda le sue radici nella crisi della globalizzazione, attraverso tutte le principali tappe di questo processo: dalla guerra in Iraq alla Grande Recessione, per arrivare allo stesso coronavirus. Se Trump – negli ultimi anni – ha indubbiamente contribuito a questa polarizzazione, va anche detto che i democratici non siano stati da meno. Pensiamo alla battaglia sul giudice Brett Kavanaugh nel 2018 o al traballante processo di impeachment avvenuto a cavallo tra il 2019 e il 2020. L’America delle due coste si sta sempre più dividendo dal blocco del Midwest e del Sud. Tutto questo, mentre la base sociale dei due principali partito sta mutando. I democratici proseguono nel loro avvicinamento verso le classi benestanti, laddove i repubblicani – come testimoniato anche dalla loro ultima convention nazionale – si stanno sempre più aprendo alla working class (operai, piccoli imprenditori, agricoltori, pescatori). Si tratta di tendenze che, con ogni probabilità, si rafforzeranno con le prossime presidenziali.
FONTE: http://osservatorioglobalizzazione.it/interviste/biden-trump-usa/
Commenti
Posta un commento
Partecipa alla discussione