Di Alessandro Scipione
La Turchia punta a scalzare l’Italia e la Cina dal mercato della logistica e della grande distribuzione in Libia. La strategia di Ankara è tanto aggressiva quanto chiara: vincere la guerra per procura che si combatte nell’ex Jamahiriyya del defunto Muammar Gheddafi e conquistare un’importante fetta del mercato africano. La Libia, oltre a essere ricchissima di risorse naturali, è la porta d’acceso perfetta per penetrare nel continente in pieno boom demografico. Non a caso l’agenzia di stampa Anadolu, megafono del “sultano” Recep Tayyip Erdogan, ha pubblicato un articolo in cui non fa mistero dei suoi piani per il paese nordafricano. “Se attuiamo una strategia di produzione che mira a rispondere agli ordini in modo tempestivo possiamo espandere ulteriormente la nostra quota di mercato e portare la supply chain in Libia a nostro favore”, ha detto Murtaza Karanfil, responsabile delle relazioni economiche estere del Business Council Turchia-Libia.
Attualmente la Turchia può contare su una quota di mercato in Libia pari al 13 per cento, ma facendo valere il suo maggiore peso geopolitico (e militare sul campo) potrebbe raggiungere anche il 30 per cento. “Il ritorno alla normalità cambierà in modo significativo la catena di approvvigionamento e la Turchia potrà ottenere in Libia la quota di mercato del 25 per cento da Cina e Italia”, ha aggiunto Karanfil. L’obiettivo dichiarato è quello di aumentare le sue esportazioni in Libia fino a 10 miliardi di dollari nel medio termine: cinque volte di più rispetto agli 1,9 miliardi di dollari registrati nel 2019.
La comunità dei “Koroglu”
Una volta finita la guerra la Turchia potrebbe puntare sulla numerosa comunità dei “Koroglu” (i libici di discendenza turca) che conterrebbe ben 1,4 milioni di individui, concentrati soprattutto a Misurata, la “città-Stato” situata circa 180 chilometri a est di Tripoli: praticamente meno un libico su quattro in Libia ha origini turche, secondo quanto riferito da Zekeriya Suleyman Zubi, capo dell’Associazione libica “Koroglu”, al portale web Al Monitor. Perfino il premier Fayez al Sarraj avrebbe origini turche, “ma lui è troppo debole”, spiega Zubi.
Secondo il capo dei Koroglu, l’organizzazione mira a rilanciare l’eredità ottomana nel Nord Africa e vorrebbe che la Turchia riconoscesse la cittadinanza turca; cambiasse la prospettiva degli ottomani nei testi scolastici libici; sostenesse l’apertura di scuole primarie, corsi di lingua turca e stazioni radio per i turchi libici; restaurasse i monumenti ottomani in Libia; costruisse un grande luogo di culto simile alla famosa Moschea blu di Istanbul. Difficile, tuttavia, pensare a una forte presenza turca in Cirenaica, la regione orientale dove l’influenza di Emirati Arabi Uniti ed Egitto è molto forte difficile da contrastare. Diverso invece è il discorso per al Fezzan: la regione meridionale della Libia è ricca di petrolio, oro e sembra anche di terre rare. Le tribù del deserto sono divise e agguerrite, ma per metterle d’accordo i turchi potrebbero usare una “buona moneta“.
La Cina è vicina
Non va sottovalutato il ruolo chiave che stava (e sta ancora) assumendo la Cina in Libia. Prima del rimpatrio in seguito alla guerra civile, la cinese China National Petroleum Corp disponeva di una forza lavoro in Libia di 30mila operai e tecnici cinesi, e incanalava l’11 per cento delle esportazioni di greggio. Pechino non ha mai abbandonato l’idea di riprendere i progetti “chiavi in mano” avviati durante l’era di Gheddafi, a partire dal settore dei trasporti e delle ferrovie. Prima dell’intervento della Nato nel 2011, China Railway Group aveva avviato nell’ex Jamahiriya tre importanti progetti del valore totale di 4,24 miliardi di dollari:
- una ferrovia costiera, da ovest a est, della lunghezza di 352 chilometri;
- una ferrovia di 800 chilometri da sud a ovest per il trasporto di minerale dalla città meridionale di Sebha a Misurata;
- una ferrovia di 172 chilometri che si estende dalla capitale Tripoli al porto principale di Ras Jedir, al confine con la Tunisia.
Almeno 690 milioni sono già stati spesi, ma la guerra ha bloccato tutto e China Railway Group ha richiamato gli operai per motivi di sicurezza. E’ ragionevole ipotizzare che Pechino voglia riprendere il lavoro che ha già iniziato e non sarà facile fargli concorrenza.
E l’Italia?
Secondo un rapporto del Centro Studi Confindustria, le imprese italiane potrebbe assumere un ruolo di leadership nella ricostruzione, con commesse intorno ai 30 miliardi di euro in dieci anni. Il rapporto evidenzia come l’Italia in Libia abbia ottime carte da giocare sia nel settore delle infrastrutture che negli impianti di trivellazione ed estrazione di idrocarburi. Da tempo le aziende italiane stanno lavorando alla costruzione di un’autostrada costiera della lunghezza di 1.700 chilometri, dal confine tunisino a quello egiziano, si estende sul tracciato della via Balbia. Il costo stimato è di circa cinque miliardi di dollari in 20 anni.
All’Italia è stata affidata anche la ricostruzione dell’aeroporto internazionale di Tripoli distrutto nel 2014. Ma tutti questi progetti sono fermi a causa del conflitto militare iniziato il 4 aprile 2019 tra il Governo di accordo nazionale (Gna) del premier Sarraj e l’Esercito nazionale libico (Lna) del generale Khalifa Haftar. Le prospettive di pace al momento sembrano remote, anche se la crisi in Libia riserva continue sorprese. L’annuncio del “feldmaresciallo” Haftar, che si è autoproclamato rais del paese, è stato interpretato come un segnale di debolezza. Il presidente della Camera dei rappresentanti di Tobruk, Aguila Saleh, ha proposto un’intesa con il Gna basato a Tripoli: le regioni storiche della Libia, Cirenaica, Fezzan e Tripolitania, dovrebbero eleggere un loro rappresentante nel Consiglio di presidenza “ristretto” a tre membri (un presidente e due vice) e preparare il terreno per nuove elezioni.
In quello che sembra un appello al governo italiano, Saleh ha affermato in un’intervista ad Agenzia Nova che gli “amici della Libia nella comunità internazionale devono contribuire a riunire le parti in conflitto e non alimentare la divisione politica e aggravare la crisi”. Un appello che sembra essere stato colto dall’ambasciatore d’Italia a Tripoli, Giuseppe Buccino, unico rappresentante europeo fisicamente presente nella capitale libica, che ha moltiplicato i contatti con esponenti del governo e parlamentari. Due i punti al centro dei colloqui:
- la situazione militare e politica dopo le dichiarazioni di Haftar e Saleh;
- la missione europea “Irini”, per ammorbidire la posizione chiusura governo Tripoli facendo valere il “rebalancing” in atto.
La partita per la Libia non è ancora chiusa, ma la concorrenza è sempre più agguerrita e senza un cambio di passo l’Italia rischia di perdere a tavolino.
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