Di Verdiana Garau
Il regno dell’urgenza nel quale siamo precipitati, all’indomani dell’abbattimento del CoVid-19 che ha messo in lista d’attesa molti degli aspetti legati all’intero pianeta, per come siamo abituati a conoscerlo, ci chiama infatti ad aderire, e piuttosto velocemente, ad un ordine di idee che sia del tutto nuovo, idee che possano ridisegnare un qualcosa che non sarà certamente più come prima, ma con delle variabili costanti che sono l’economia e il suo capitalismo.
Difficile mettere bene a fuoco adesso, e la sensazione che più si avverte, è quella del disorientamento totale e l’incapacità di prendere una decisione per muoversi ed andare avanti proattivamente.
Perché avanti si andrà, sarà inevitabile, ma soprattutto, a partire dall’anno prossimo, tutto sarà irreversibile.
Negli ultimi anni abbiamo assistito al dilagare di nuove tendenze, come ad esempio nuovi partiti o movimenti ambientalisti ed ecologisti, o antiteticamente – poiché non presuppongono l’esistenza di un pianeta comune di riferimento – il riaffiorare di sentimenti nazionalisti e suoi ripiegamenti sovranisti. Il tutto a macchia.
Sì, a macchia, poiché là dove i centri nevralgici della finanza o delle grandi multinazionali, siano esse grandi compagnie assicurative o aziende tecnologiche, continuano a pulsare e a occupare le aree maggiormente cosmopolite, là dove c’è un pianeta che richiama l’attenzione di ogni cittadino del mondo, a prescindere dalla nazionalità, all’inverso, e in modo sparso e non sincronizzato, le nazioni, che al cospetto appaiono microstrutture, rivendicano la territorialità e il diritto ad esistere.
Non che i due aspetti non si possano conciliare, ma analizziamo meglio.
Il determinismo non è affatto superato, il virus ci ha posto davanti al fatto che alla causa corrisponde un effetto e l’effetto a questa causa è di portata epocale e globale, come lo stesso virus.
Ma come fa anche notare il professor Giuseppe Sacco, certamente il determinismo geografico appare oggi – ormai da quaranta anni – naïf.
I confini ci sono, ma sono decaduti. Al loro posto si sono sostituiti confini sociali, che potrebbero diventare, parafrasando invece il prof. Salvatore Santangelo, le vene corrosive del sistema.
Ci sono dei centri pulsanti, che non rispondono ai confini del passato e ci sono delle periferie che non si perimetrano facilmente su una carta geografica, ma che si avvertono nel loro abbandono e che fortemente stanno soffrendo di questa stasi economica.
Quindi determinismo ed economia capitalista, restano le variabili costanti, all’interno delle quali una nuova storia prende forma.
Certo che per come siamo stati abituati noi delle generazioni X, Z o millennials, è stato difficile interiorizzare i concetti come quello di “futuro”, molto attivi, ma ben poco inclini alla proattività.
Forse il futuro non ci ha mai riguardato, abbiamo avuto tutto apparentemente alla nostra portata, tutto il presente possibile, siamo stati facilitati e allo stesso tempo fagocitati dall’estrema voracità del sistema, ma in realtà tutto ciò che abbiamo imparato è stato vivere alla giornata, noncuranti del passato e senza mai troppo pensare al domani. Nonostante le nostre eventuali adesioni ai movimenti ecologisti per un pianeta di domani, non siamo stati dotati degli strumenti per costruire questo pianeta del domani: la gran parte dei patrimoni sono erosi, la società che abbiamo conosciuto è quella del consumo e del solo consumo, quindi dell’uso spregiudicato del pianeta, prima che della sua conservazione, rimandando il problema altrove e più in là, ma che oggi si ripropone, prepotentemente.
E consumo significa debito, solo debito.
Oggi il debito non è solo sovrano, è umanitario, sociale e ambientale. Tutte qualità che appartengono alla grande macro-categoria globale.
Chi paga? Chi produce? Chi consuma?
La funzione della Finanza, strumento dell’Economia e non certo il suo contrario -anche se sappiamo come è stato inteso e sfruttato dagli anni ’80 in poi- proprio fino a quegli anni ’80, aveva regalato alla società dell’uomo del pianeta, un mondo moderno, con il suo acciaio e il suo carbone, le sue autostrade e i suoi aeroporti, i grattacieli, le grandi metropoli internazionali, con una visione: era attiva e proattiva, votata all’investimento a lungo termine e all’investimento intelligente, ovvero quell’investimento che torna indietro, non quello del debito procrastinato, non il desiderio appagato, ma il suo dovere compiuto.
Il Fondo Monetario Internazionale ha promosso durante questi ultimi vertici che si sono tenuti a fine marzo, la sospensione dei pagamenti dei 29 Paesi più poveri, perché possano far fronte alle emergenze dovute al CoVid-19, spese che verranno sostenute dai Paesi più ricchi.
Gli strumenti sono il RCF (Rapid Credity Facility) e il RFI (Rapid Financing Instrument), che verranno messi sul piatto e sforeranno necessariamente gli oltre 100 miliardi di dollari.
Come tutti i fondi, così come quello europeo del Recovery Fund o altri strumenti come il MES, ciò che caratterizza questo genere di prestiti sono le condizionalità. Se un fondo presta del denaro, questo deve essere restituito, pena l’affondo degli stessi creditori. Si chiede dunque, solitamente, di stabilizzare il debito pubblico dello Stato, e di limitare il fabbisogno di moneta estera.
Ma come fare con questa pandemia? Come si può pretendere che un prestito di questa portata e di questa natura risponda ad una stretta del debito interno del Paese, quando quello stesso Paese ha bisogno di quei soldi proprio per fare debito e riparare i danni dovuti al disastro sanitario?
Le aporie emergono proprio in merito alla qualità che questa economia e questo capitalismo dovrebbe cercare ed adottare, per quella che auspicabilmente possa essere una visione di largo respiro e che si proietti a lungo termine, perché sia solida, efficace e duratura.
Di fatto il capitalismo ha bisogno di sé stesso per uscire fuori da questo vortice in cui è precipitato. I ricchi diventeranno più ricchi e i poveri più poveri?
Non è detto.
Quello che mi viene in mente a questo punto, per fare un po’ di ironia, è una vecchia battuta di un magistrale film come La Notte di Michelangelo Antonioni:
“L’operazione è riuscita. Il paziente è morto”.
Paziente da pazienza, ma paziente anche come affetto da una malattia.
In entrambi i casi è un aggettivo che ben si addice al capitalismo di oggi, di questi tempi affetti da pandemia: un paziente che ha bisogno di far appello alla sua pazienza.
Un capitalismo malato e che deve pazientare, perché si riprenda, ammesso anche che ritorni ad essere come prima, ma che non solo, dopo questa morte apparente, dovrà allentare i ritmi e quindi munirsi di una costante pazienza, non solo per la sua convalescenza, ma per non riammalarsi più.
La pandemia ha letteralmente sospeso ogni possibile diagnosi e la prognosi pare riservatissima. Ma un’anamnesi si può pure provare a farla.
Da quando il CoVid-19 è arrivato, abbiamo sùbito compreso che l’economia e in particolare l’economia capitalista, nostro motore, non è un algoritmo, ma è fatta di persone, è organica, come del resto tutto ciò che ci circonda, pensieri compresi, forse.
La vita di ogni singolo Stato è legata alla disinvoltura con la quale l’economia si riprenderà e ricomincerà a camminare su quelle che avremmo fino a due mesi fa definito “le sue gambe”. In realtà “le sue gambe”, sono le “nostre gambe”.
Paralizzati, costretti, volenti e nolenti, all’arresto fisico di persone e attività, è solo lo Stop! L’ Alt!, il Fermi tutti!, ciò che vediamo più da vicino.
Ma proviamo ad allontanarci un attimo, per mettere meglio a fuoco e definire i contorni in modo più chiaro di questa situazione.
Gli aerei sono per lo più a terra, quando in volo praticamente vuoti. Le stazioni dei treni sono deserte. I centri storici spettrali, bar e negozi chiusi. Poche le persone in giro e con il volto coperto dalla mascherina. Parrebbe un’economia imbavagliata.
Ma il cuore continua a battere, anche se il resto del corpo resta immobile.
Le filiere produttive strategiche, come quelle dell’agroalimentare e dei trasporti funzionano. La flebo è correttamente inserita dunque, la circolazione è buona. Le aziende produttrici di automobili si sono riconvertite e provvedono alla fornitura dei respiratori e anche altro. Quindi, anche lo stato della funzione polmonare è in attivo.
La secrezione dei liquidi ed escrementi in eccesso è funzionale, anche se lento, il paziente reagisce e pare si stia anche disintossicando.
La finanza, cervello e macchina nervosa, reagisce, anche bene per certi aspetti.
Gli altri organi, cuore a parte, sono un po’ in sofferenza, ma vivi, e non vedono l’ora di ripartire a pieno regime e si avvalgono anche di una tecnologia strategica.
Si è chiuso un sipario e se ne è aperto un altro sul vuoto, ma anche sulla speranza.
Restaurare o reinventare?
Ci sembra di non avere più idee al momento, ma conserviamo molta memoria, utile per le nostre aspirazioni che paiono essere d’improvviso cancellate, con le politiche che perseguono solo l’ombra di sé stesse e una gioventù che ha paura di essere ridotta ad uno straccio: ma perché abbattersi? Serve a qualcosa?
La paura va governata e come avrebbe detto Walter Baghot, “di panico, non si muore di fame”.
Edward Luttwak ci dice che questo è il “virus della verità” e mai tanta verità era stata sbattuta in faccia ad ognuno dei pazienti, siano essi persone, cittadini, Stati, organizzazioni, business, consapevoli e meno consapevoli, ecco ognuno ha la sua verità, la propria verità che è anche una verità collettiva.
Per tornare a citare Flaiano “la sublime vetta del mondo”, ovvero l’imbecillità, è visibile più che mai.
Oltre alla paura, perché la verità fa male e fa anche paura, si è perso la fiducia, nelle istituzioni, nei media, infine anche nella scienza.
La politica è quella degli eccessi, eccessi di democrazia o di protagonismo, di populismo o di sovranismo, in ogni caso eccesso, eccesso estremo.
Le risposte sembrano poggiare sui soli due concetti: isolamento o globalismo. Il disagio economico conduce all’incertezza e l’incertezza conduce ad una perdita di sicurezza e la perdita di sicurezza conduce alla confusione sociale.
Ma se già stritolati dal recente passato consumista e adesso stritolati dall’eccesso degli eccessi di pensiero, perché non tentare di fare un esercizio di riflessione?
Pazienza. Il capitalismo pare essere perenne, non si può pensare una società con una economia senza capitali e il flusso di questi, che comporta anche il flusso di persone necessariamente.
Di fronte abbiamo un pianeta che mai come prima si è reso conto di quanto sia interconnesso e che non può non fare finta di quanto siano vitali gli aspetti nevralgici del suo sistema: uno di questi è la finanza, il secondo, l’ambiente.
Ci sono quindi delle necessità imprescindibili, e per ripartire si ha bisogno improrogabilmente di grosse iniezioni di liquidità.
Questa liquidità, come dicevamo, dovrebbe riguardare al futuro, perché dipenderà dalla gestione di oggi, il futuro di domani. La finanza deve tornare a fare la finanza, ovvero essere lo strumento dell’economia e l’economia, mai come oggi, mostra tutto il suo aspetto reale. E quando l’economia è reale serve la politica a gestirla.
L’ “economia sociale di mercato”, sarà perseguibile se aderirà a dei parametri sociali. Primo l’ambiente e il suo rispetto, secondo l’efficienza e l’ottimizzazione, terzo l’educazione delle masse al rispetto dell’ambiente, la dimestichezza con la tecnologia, che a sua volta, aiuta ad ottimizzare e a rendere efficienti e puliti tutte le articolazioni del sistema economico, aiuta a non disperdere e portare linfa in modo capillare a tutti gli organi e i tessuti.
L’economia è “machine à habiter”, come avrebbero detto nell’Ottocento alcuni architetti, in riferimento all’ambiente in cui si inserisce l’uomo, deve perciò adattarsi ai bisogni dell’uomo stesso. L’economia è l’architettura per l’uomo e non certo il suo strumento decorativo.
La consapevolezza, se arriverà, rispetto ai valori da perseguire e perseguibilissimi, poggerà sui singoli viaggi introspettivi di ognuno dei singoli cittadini del mondo, che dovranno cominciare a domandarsi se sono utili alla società i loro contributi, se il loro lavoro ha un senso per sé stessi e quindi anche per gli altri, se questo lavoro partecipa alla costruzione del domani e non alla sua distruzione.
Come il capitalismo sarà paziente e medico di sé stesso, anche ogni singolo partecipante potrà certamente arricchirsi da questa temporanea malattia.
E i giovani lo sanno, sono i meno colpiti.
“L’atto più completo è quello del costruire – dice Socrate a Fedro- Un’opera richiede amore, meditazione, obbedienza al tuo più bel pensiero, invenzioni di leggi pel tramite della tua anima, e molte altre cose che da te, ignaro di possederle, essa meravigliosamente trae”. (Eupalino, Paul Valery)
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