Quali sono le maggiori sfide per l’economia italiana in questa fase di grave crisi e instabilità sistemica? Ne abbiamo parlato con Emanuele Felice, economista, docente di Economia politica all’Università di Chieti-Pescara e dal febbraio 2020 responsabile Economia e Lavoro nella segreteria nazionale del Partito Democratico. Felice, nato a Lanciano nel 1977, è autore di diversi testi, tra cui figurano le seguenti (tutte pubblicate da “Il Mulino”): “Perché il Sud è rimasto indietro” (2013), “Ascesa e declino. Storia economica d’Italia” (2015) e “Storia economica della felicità” (2017). Recentemente, Felice ha pubblicato per la medesima casa editrice “Dubai, l’ultima utopia”.
Buongiorno professor Felice e grazie per la sua disponibilità. Quali sono a suo parere le maggiori sfide che la crisi apre per l’Italia e l’Europa?
Le sfide sono numerose: in primo luogo, in relazione all’Europa bisognerà vedere se passeranno i piani di maggiore spesa attualmente in discussione, l’aumento del bilancio europeo dall’1 al 2% del Pil e gli altri aiuti: Bce, Bei, eventualmente il Mes. Arriveranno tanti soldi, e bisognerà essere in grado di spenderli. Il che può essere un problema serio: noi nel decreto di aprile sulle banche abbiamo già avuto una prova di questo. Credo anzi sia la maggiore sfida che abbiamo di fronte. Una sfida che, per certi punti di vista, può essere anche una grande opportunità per adeguare il nostro apparato amministrativo a una maggiore efficienza e capacità di spesa.
Riuscire a spendere in infrastrutture, o anche in aiuti alle imprese, utilizzando i finanziamenti che arrivano dall’Europa significa dover tornare a fare una seria politica industriale. L’Europa consentirà di nuovo gli aiuti di Stato, sia che si tratti di garantire liquidità alle imprese che di acquistarne eventualmente quote: però bisogna essere in grado di fare una politica industriale per non buttare via tutto questo in interventi a pioggia o peggio in sussidi opportunistici.
Come dovrebbe, a suo parere, strutturarsi una politica industriale di questo tipo?
Bisogna, per fare un paragone col nostro passato, evitare di fare una Gepi (finanziaria pubblica costituita per il salvataggio, la ristrutturazione e la successiva vendita delle aziende private in difficoltà e operativa fino al 1997, ndr). Piuttosto bisognerebbe fare l’Iri. Ma per fare l’Iri servono capacità.
Siamo davanti a un’opportunità storica per evitare il declino dell’Italia, ma dobbiamo essere in grado di coglierla perché potrebbe essere l’ultima. Secondo me il grosso della sfida riguarda dunque il rapporto dell’Italia in relazione all’Europa. Mi preoccupa la scarsa capacità dell’Italia di adeguarsi alla fase “espansiva” in termini di politica economica, di visione come pure di interventi di aggiustamento concreti.
All’Europa, dunque, è richiesta coesione e coordinamento; all’Italia la parte strategico-operativa della messa in campo dei piani. Il richiamo all’Iri, in tal senso non è più anatema, se pensiamo che alcuni mesi fa c’era chi lo associava allo “Stato-rigattiere”.
Esattamente, anche se ribadisco che accanto all’opportunità “Iri” c’è anche il rischio “Gepi”, il rischio di fare un carrozzone in perdita incapace di sviluppare una politica industriale. E noi abbiamo avuto negli ultimi vent’anni un indebolimento dell’apparato amministrativo pubblico e della sua capacità operativa. La riforma dell’amministrazione è un problema serio che va affrontato: in questi due anni è prioritario per noi assumere circa 500mila nuove persone per completare gli organici, da scegliere con cura, non solo per le loro competenze specifiche ma anche per le competenze organizzative-gestionali e di sistema.
Capitale economico e capitale umano: le istituzioni, in fin dei conti, sono fatte in primo luogo dagli uomini che le animano.
Certo. In un certo senso la crisi accelera il nostro incontro con la questione chiave del nostro mancato sviluppo: il malfunzionamento delle regole, la debolezza dell’amministrazione, la formazione del capitale umano. Problemi da affrontare in maniera sempre più urgente, perché la crisi richiede capacità amministrative all’altezza.
Ci sono, in questo contesto, i Mattei, i Vanoni e i Menichella pronti a guidare l’economia italiana a un nuovo sviluppo?
Speriamo di poterli trovare al più presto: voglio sperare chle persone di tale calibro si formino ed emergano proprio in relazione a queste sfide.
Passando al dibattito politico-istituzionale, legato al suo ruolo di responsabile economico del Partito Democratico, come si sta sviluppando il dibattito tra le forze politiche, gli apparati economici come Confindustria, i sindacati?
Nella maggioranza mi pare che il Pd sia l’unica formazione ad avere consapevolezza di questi problemi. I Cinque Stelle, fatta eccezione per alcune figure come Conte e Patuanelli, non sembrano all’altezza, e Italia Viva ha una posizione molto ostile all’idea di una politica industriale pubblica. Confindustria ha fatto delle proposte, alcune anche interessanti, come la spinta alla ricerca scientifica e il potenziamento degli investimenti in innovazione, altre francamente difficilmente comprensibili, come l’idea di creare un consiglio del lavoro senza i sindacati per governare le relazioni industriali nella fase d’emergenza. I sindacati sono più preparati a questa fase, con loro si lavora meglio.
In questa fase viene fuori, in effetti, l’importanza del lavoro per la ripresa del Paese. Sarà il tema del lavoro la chiave per la rinascita?
Si, anche se comunque il lavoro buono non si crea per legge, ma con la crescita e lo sviluppo economico. La legge ha il compito di prevenire l’esistenza e lo sviluppo del lavoro “cattivo”.
Sul “lavoro negativo” ci sono stati sviluppi: si è presa consapevolezza sul tema della tutela del lavoro a rischio sfruttamento dalle mafie e dal lavoro nero?
Si, e la crisi apre altre questioni: ad esempio sarà lanciato il reddito d’emergenza per tutelare le persone vittima del lavoro nero o intrappolate nel lavoro grigio, che ci permetterà di avere un’idea della dimensione di questi fenomeni per farli poi emergere.
In questo contesto, come si inserisce l’obiettivo di rafforzare la coesione tra Nord e Sud nella strategia per la ripresa del Paese?
Questa crisi fa emergere problemi del Sud come il divario digitale col resto d’Italia. La banda larga è arrivata molto meno che al Nord, poi c’è la questione dell’istruzione, che fatta a distanza tende a sfavorire chi viene da un background familiare più problematico. Questi sono i due fattori di divaricazione principali, poi non c’è dubbio che questa crisi ha colpito maggiormente il Nord. Per ragioni strutturali il Sud è più debole, per ragioni contingenti il Nord è attualmente più in affanno. Le imprese del Nord, integrate a lungo nelle catene del valore di matrice tedesca, possono essere messe a rischio dalle evoluzioni della crisi del manifatturiero.
Commenti
Posta un commento
Partecipa alla discussione