Intervista di Verdiana Garau a Ciro Cafiero per OSSERVATORIO GLOBALIZZAZIONE.
Di Verdiana Garau
V.G. Avvocato Cafiero, in questi ultimi giorni molti cittadini si sono precipitati sul sito dell’Inps per fare richiesta delle 600€ che l’istituto metterebbe a disposizione, come bonus una tantum, per coloro che sono lavoratori autonomi a partita iva.
Oltre alle anomalie riscontrate a causa del mal funzionamento del sito, è stato notato che tra le categorie che l’istituto include come aventi diritto al bonus, non compaiono coloro che attualmente non sono titolari di contratto.
Sono incluse inoltre le categorie del mondo dello spettacolo, il turismo, l’agricoltura, gli iscritti all’Ago, ma fuori da queste categorie restano moltissimi giovani a partita iva a regime minimo, che eventualmente vivono di prestazioni occasionali e che con molta probabilità ad oggi non stanno lavorando, quindi non risultano come titolari di contratto.
Non saranno stati troppo disinvolti all’Inps nell’erogare le 600€, non considerando proprio quei lavoratori autonomi meno sprovvisti, non coperti da alcun ammortizzatore sociale e che, penalizzati maggiormente dalla chiusure delle attività, hanno davvero bisogno di quel sussidio ?
C.C. Infatti, diciamo subito che quelle agevolazioni si riferiscono a tutta la platea dei lavoratori autonomi ed esclusi, ci accorgiamo, restano anche gli agenti di commercio. Sicuramente il requisito, richiesto dall’Inps, è quello della sussistenza di un contratto e già qui ci sono due problemi: primo, che alcuni nemmeno lo hanno un contratto, come quei lavoratori occasionali di cui lei faceva menzione e l’altro, è che gli stessi lavoratori a partita iva spesso lavorano senza contratto, perché basta inviare una fattura a fronte del pagamento per la prestazione e lo sappiamo anche io e lei, ed è sufficiente l’esperienza di chiunque lavori come autonomo.
Quindi, l’attività di fatto ci può essere, malgrado questa sia una richiesta dell’Inps. L’art. di riferimento è quello del Codice Civile 2222, che non prevede un contratto per le partite ive, si dice in diritto, ad substantiam, ai fini cioè di provare l’esistenza di un contratto. Laddove infatti, qualcuno dovesse andare in giudizio, per ottenere il pagamento del corrispettivo, deve provare con un contratto che quell’attività c’era, ma altrimenti non è richiesto. Inoltre, chi certifica che ha un contratto, pur non avendolo in forma scritta, secondo me non dovrebbe incorrere nel reato del falso, mentre chi certifica che ce l’ha, ma è ad esempio è cessato o non ce l’ha, sicuramente si espone al reato.
Comunque occorrerebbe sì un contratto, o formale o in forma scritta meglio ancora, pur ricordando che tutti coloro che hanno partita iva, ma non hanno contratto, non possono accedere al beneficio.
V.G. Da qui scivoliamo subito nell’oscurità del mondo del lavoro nero…
C.C. Sì, il problema, al netto delle partite ive, sussiste per il lavoro nero. Che è un altro dramma. Ci sono circa 3.000.000 di lavoratori in nero in Italia.
Andrebbe individuato per questa platea un eventuale reddito-covid, come è stato anche chiamato, diciamo un reddito di emergenza e quindi in quel caso non sarebbero necessari i parametri di riconoscimento che richiede l’Inps, poiché resta una platea di lavoratori totalmente esclusi da quel sussidio.
V.G. Cosa rischiano coloro che eventualmente mentono? Diciamo che non sono titolari di contratto, ma fanno comunque richiesta.
C.C. In questo momento di grande frenesia e assenza di controlli a tappeto e in profondità, è possibile che il sussidio lo si ottenga, ma che poi lo si debba restituire, con conseguenze penali. È truffa, nei confronti dell’INPS.
V.G. Non sembrano un po’ poche soltanto 600€? Perché 600€?
C.C. A questo proposito merita fare il confronto con il reddito minimo garantito, partendo da un dato oggettivo: un reddito minimo garantito prevede un minimo base tra i 750€ e gli 800€. Qui, al professionista a partita iva, peraltro tartassato dalla crisi, vengono garantiti solo 600€.
Paradossalmente bisogna essere tra gli sfortunati, disoccupati di lunga data e reddito basso, per accedere al reddito minimo garantito e per godere però di un migliore trattamento da parte dello Stato. I 600€ sono irrisori, una valutazione che non prende conto delle reali esigenze. La mia proposta sarebbe quella di garantire un sussidio molto più alto, prendendo a riferimento il reddito garantito negli USA ad esempio, di 2000$, ovvero 1600/1700€; garantirlo certamente a fronte di particolari requisiti, come la comprovata perdita di fatturato e non a pioggia. Tra i requisiti ricomprenderei anche le partite iva che si trovano a zero euro, che se erano in difficoltà prima, adesso lo saranno sicuramente.
V.G. Inoltre notiamo che il tetto massimo di reddito dichiarato per accedere a questo piccolo sussidio bonus da 600€, è di 50.000€ annue. Senza nulla togliere alle difficoltà dei singoli, ma certamente sarà facile immaginare che chi guadagna 1200€ al mese abbia più bisogno del bonus, a differenza di chi ne guadagna 3/4000€. Oltre a non essere state considerate anche altre categorie di autonomi, come lei ha già fatto notare.
C.C. Le faccio un esempio, quello della cassa forense: per loro sono stati garantiti i sussidi per quegli avvocati che hanno un reddito pari a 35000€, o fino a 35000€, e anche tra i 35000€ e i 50000€ salvo la dimostrazione di una perdita di fatturato almeno del 30%; il punto però, in questo caso, è che è stato preso in considerazione il reddito generale, quello ISEE, non solo quello professionale.
Un’offesa totale in definitiva alla dignità e all’intelligenza delle persone.
Sarebbe certamente stato meglio erogarli ai bisognosi veri.
Il costo della vita è il punto di partenza equilibrato a cui fare davvero riferimento.
Alla fine, queste 600€, rischiano di non essere risolutive, per nessuno.
V.G. Al momento il vincolo Inps ad oggi pare fuorviante, dunque. Se il mio datore di lavoro ha receduto dal contratto un mese fa, come riparare? Oppure, lavoro una tantum pur avendo la partita iva e questo momento congela ogni mia aspettativa?
C.C. Il Governo aiuta di fatto chi già lavorava e chi ha perso del lavoro e non aiuta chi non sta lavorando. Queste 600€ dovrebbero andare, secondo il Governo, a chi ha subìto una perdita di fatturato. La misura adottata non è certamente meritevole per come è stata strutturata. Sicuramente esistono, come dicevo, altre misure alle quali probabilmente verrà fatto riferimento in questi casi, a misure come il reddito di cittadinanza, che vengono erogate infatti anche a fronte di parametri come ISEE e guardano nello specifico a questi soggetti.
V.G. A proposito del reddito di cittadinanza, cosa ne pensa lei della proposta del Ministro Bellanova di utilizzare i percettori di reddito di cittadinanza per il lavoro nei campi, dato che si è verificato un calo di manodopera?
C.C. Io sono d’accordo e a proposito, come ho fatto notare in un mio recente articolo apparso sul Sole24Ore, ho criticato la scelta del Governo sull’eliminazione del cosiddetto “obbligo di condizionalità”, ovvero quell’obbligo che impone al percettore, di un qualsiasi sussidio, di accettare un’offerta di lavoro disponibile, pena la perdita del sussidio stesso. In questa fase di emergenza si è voluto agevolare un po’ tutti e quindi si è eliminato l’obbligo di condizionalità. Come le dicevo ho trovato questa scelta poco coerente.
V.G. Perché?
C.C. Perché innanzitutto i lavori ci sono e ce ne sono anche tanti, se ovviamente svolti in sicurezza. Lei mi parlava dell’agricoltura, ma ci sono tantissime richieste in aumento in questo momento di lavori: i servizi alla persona, green-economy, le consegne a domicilio, o il baby sitting ad esempio, poiché a causa del decesso di tantissimi anziani, che costituivano in qualche modo il welfare familiare, è venuto a mancare quel supporto nelle famiglie e una conseguente privazione di quella assistenza. Anche nel caso in cui non si voglia far lavorare i percettori di reddito di cittadinanza o altro sussidio, fermo restando che esistono dei limiti territoriali, e penso a lavori che si possono svolgere nell’ambito degli stessi comuni o territori, avrei proposto la formazione. Stipuliamo l’obbligo formativo.
V.G. Ma non si entra in conflitto con la realtà stando a quello che mi dice? La manodopera viene a mancare in alcuni settori anche per ovvia mancanza di presidi sanitari adeguati e nel settore agricolo sappiamo che nella maggior parte dei casi la manodopera era già sfruttata senza copertura per 3€ l’ora. Adesso dovrebbe prevedere il Governo a fornire manodopera a chi fino a ieri sfruttava gli immigrati nei campi? Mi permetta la polemica, ma vorrei capire meglio.
Sono s’accordo con lei che i percettori debbano potere e dover lavorare ed anche fare formazione in questo periodo. Ma la reatà ci dice che agli stessi percettori non sono arrivate offerte di lavoro fino a ieri e sappiamo che l’economia è ferma e meno omogenea di prima. Non riesco ad immaginare poi come si possa organizzare il tutto, formazione compresa, senza vere piattaforme digitali adeguate. Poi le differenze fra sud e nord. Al sud si sono verificate più richieste di rdc, ma sarebbe al nord che si trova l’offerta di baby sitting o per la consegna di cibo a domicilio.
C.C. Certamente, questo frangente però offre un’emersione del lavoro nero e un’occasione per regolarizzare. Si potrebbe mappare meglio il percettore o il lavoratore a nero e si potrebbe sostituire il lavoratore irregolare con il lavoratore regolare.
V.G. Non fa una piega. Resta un dubbio: perché secondo lei è stata comunicata soltanto la proposta di mandare nei campi i percettori di rdc? Mi sembra una forzatura. Mancanza di adeguata comunicazione da parte delle istituzioni?
C.C. Resta che qualcosa vada fatta. Non possiamo certo pensare di sussidiare indistintamente, si deve chiedere qualcosa in cambio alla fine. Il reddito è adatto al contesto emergenziale, ma si deve trovare il modo di uscirne.
Per quel che riguarda la comunicazione istituzionale, troviamo senza dubbio qualche lacuna e forse più di una.
V.G. Avvocato, lo Stato ha il dovere fino a che punto di garantire l’assistenza in questi casi? Ammortizzatori, sussidi…
C.C. Partiamo dal testo fondamentale, dall’Art.36 della Costituzione e dall’Art.3.
Si dice da una parte, all’Art.36, che ogni cittadino ha diritto ad un’esistenza libera e dignitosa e che la retribuzione assicura la dignità e lo sviluppo della persona umana attraverso il sostentamento economico, poiché non c’è sviluppo di persona umana se non c’è sostentamento. All’Art.3 si dice invece del dovere dello Stato, di rimuovere ogni ostacolo che possa impedire lo sviluppo della persona umana. In questo contesto, in cui lo Stato ha chiuso le attività aziendali e ha permesso che poco lavoro potesse restare attivo, cause esigenza pubblica preminente, dovrebbe, perché deve, in modo efficace, provvedere a quanto gli compete. I canali tortuosi disegnati dal decreto legge, ai fini della cassa integrazione, che ad oggi si candida ad essere il primo sussidio, primo paracadute per il reddito, aiutano poco. I fondi stanziati anche non si rivelano sufficienti. A fronte di una richiesta di 13mld di cassa integrazione lo Stato ne ha stanziati 4mld. Si spera perciò, che il decreto di aprile vada a impattare su situazioni di questo genere per migliorarle. Io ho proposto, pubblicamente sempre in riferimento all’articolo apparso sul Sole24Ore, all’istituzione di un Fondo Unico alla cassa integrazione, con procedure semplificate.
Oggi consideri che abbiamo: la cassa integrazione ordinaria, la cassa integrazione in deroga, l’assegno ordinario, la cassa integrazione straordinaria, che può convertirsi in ordinaria per la causale CoVid-19. Per ognuna di queste procedure è prevista un’informazione e una consultazione sindacale, che non aiutano, nel senso che rischiano di ostacolare la percezione del sussidio, per le lungaggini e perché il sindacato è uno e non può gestire qualcosa che riguarda almeno 30milioni di lavoratori nel Paese. Dall’altro lato, rischia di svilire anche la funzione stessa del sindacato, che diventerebbe un sindacato cammeo, ovvero che andrebbe a ratificare nella sola ottica della legislatura. Andrebbe per cui creato un Fondo Unico, accessibile a tutti, al di là degli accordi sindacali, e andrebbero stanziate sicuramente delle risorse maggiori. Spero che presto qualcosa accada, la rivolta sociale non credo sia così lontana. La maggior parte dei lavoratori a nero, ad esempio, li abbiamo al sud e se non escono di casa, non possono procurarsi da mangiare.
V.G. Diritto o dovere del lavoratore tornare a lavorare?
Nella condizione Co-Vid19.
C.C. Le rispondo con Costantino Mortati: il diritto al lavoro è un diritto-dovere.
Il lavoro non è mai solo un diritto o solo un dovere. Diritto perché è un mezzo di sussistenza, dovere perché contribuisce alla prosperità comune. Mai come in questo momento il lavoro assume la doppia valenza di diritto-dovere: diritto perché esiste il diritto alla propria sussistenza e a mantenersi, il Paese non può scontare per molto il lockdown, poiché coinvolge tutti. Dovere del lavoro invece, che riguarda il lavoratore anche nel suo essere consumatore, è quello di contribuire alla ripartenza di un Paese che sarà fermo per molto tempo. Sappiamo già che non tutti riapriranno. Con la stagnazione dei consumi, stagnazione dell’economia, calo della domanda, calo dell’offerta, deflazione e quindi rischio enorme per il Paese. Qui non siamo di fronte allo scenario keynesiano dove troveremmo un calo della domanda di lavoro, qui siamo davanti ad uno scenario inedito, con calo sia della domanda che dell’offerta. Quindi dico, diritto-dovere in questa ottica e accenderei molto di più la dimensione del dovere.
Da cittadini, da lavoratori, da consumatori, bisognerebbe tenere a cuore le sorti del Paese, che altrimenti rischia di non risollevarsi mai. Parliamo di una crescita del 10% in meno del PIL, secondo le stime di Confindustria e di una crescita stimata al 2021 del -3,5%, forse. Di fronte a questo scenario mi premerebbero le sorti di noi tutti. Spero che il Governo ne prenda atto e che seguirà una riapertura graduale.
Io sono per una riapertura in sicurezza, ma per una riapertura. A maggior ragione se sappiamo che gli stanziamenti per la cassa integrazione non sono sufficienti.
V.G. Molti sono già in sciopero. Non ci sono le risorse per riaprire in sicurezza.
C.C. Non sono per le false profezie, però dobbiamo trovare il modo assolutamente di riaprire e in sicurezza.
Lo Stato potrebbe prevedere un test a tappeto per tutti e consentire di andare a lavoro solo a coloro che sono o negativi o immuni al virus. Seguendo in qualche modo il modello coreano.
V.G. Come funziona per coloro che hanno continuato a recarsi nel posto di lavoro fino ad oggi senza protezione come al nord? E in questo momento che le aziende chiedono di riaprire, ma non sono ancora stati messi a punto nessuno di questi metodi di controllo e sicurezza di cui stiamo parlando, il lavoratore ha diritto di stare a casa se lo vuole?
C.C. Nel momento in cui non si è messi in sicurezza, c’è un diritto imposto dalla legge per starsene a casa. In un’azienda in cui le procedure di sicurezza, previste peraltro da un protocollo in maniera specifica, quello del 14 Marzo richiamato dal D.L. n. 19 del 2020, successivo al Cura Italia, laddove queste misure non ci siano, il lavoratore ha la facoltà si astenersi; ma ce lo dice chiaro e tondo l’art. 44/81, del 2008. C’è un riferimento legislativo trasparente: il lavoratore può astenersi da tutte quelle situazioni che potrebbero intaccare il suo stato di salute, senza andare soggetto a contestazioni disciplinari o contestazioni di sorta, rispetto alla sua persona. Quindi, diritto di lavorare in sicurezza, per tutelare la propria sicurezza e anche quella degli altri. Se questo non avviene, il lavoratore deve restare a casa. Il lavoratore assume anche una veste diversa, di garante della propria salute e della salute altrui: art.20/81 del 2008. L’81 del 2008 è un testo completo, illuminante, il lavoratore non può esporre sé e gli altri al rischio.
Laddove non lo faccia, egli stesso è passibile di sanzione amministrativa, non penale, ma amministrativa sì.
Diritto di lavorare in salute, ma un dovere lavorare in sicurezza, per sé e per gli altri.
V.G. Lo smart working? È un’ottima alternativa per non congelare l’attività lavorativa. Ma dal suo punto di vista, quanto è giusto sotto il profilo della tutela?
Esiste già una normativa chiara per regolare questo tipo di attività?
C.C. Esiste, esiste già la legge 81/2017 sullo smart working.
Lo smart-working, o lavoro agile, è una modalità di svolgimento, non un nuovo rapporto di lavoro, ma una novità di esecuzione, che prevede la distinzione, non molto netta, rispetto agli spazi e ai tempi e ai poteri. Cambiano gli spazi, che non sono più quelli della fabbrica o l’ufficio, ma della casa, ad esempio in riferimento a quelli utilizzati oggi per l’emergenza che viviamo e più in generale potrebbero essere luoghi di lavoro anche tutti gli altri spazi.
Si potrebbe persino andare a specificare che lo smart working sia svolgibile in itinere, ad esempio sono al supermercato, ma anche al telefono con i miei clienti, in quel caso sto lavorando in itinere. Gli spazi cambiano e cambiano gli orari che sono più modulabili. In genere questo ultimo dettaglio è un disvalore, poiché non esistono accordi in questo frangente emergenziale. Di solito gli accordi, in questo caso, sono accordi individuali. Cambiano anche i poteri, quelli direttivi, ovvero come i datori di lavoro possono esercitare il loro potere. I poteri organizzativi e direttivi, possono essere esercitati diversamente, ma se il mio impiegato non lo vedo non si può esercitare allo stesso modo. In questo caso viene lasciato tutto al buon senso di entrambe le parti. Nell’81/2007 si disciplina infatti lo smart working nell’orario di lavoro ordinario. Nel caso che stiamo vivendo di quarantena nella fattispecie, potremmo chiamarlo home-working o emergency-working, e sfuggirebbe per le peculiarità che comportano alla disciplina dell’81, poiché non è chiaro come e in che orario si stia svolgendo questo lavoro, perché non esistono eventuali accordi dati l’emergenza. Come si fa in questo contesto a regolare gli orari? Come si possono regolare i poteri? Cosa ne è del preavviso? Questo aspetto andrà regolato e i primi contenziosi sono già emersi.
V.G. E chi già, prima che scoppiasse l’emergenza, lavorava in smart working?
C.C. Giusta osservazione. Infatti le criticità emergono tra coloro che prima non lavoravano in smart working e adesso sono praticamente costretti a farlo. Cosa cambia adesso? Ci si lascia alla mercè del buon senso come le dicevo prima? Oppure si va ad applicare la disciplina come sopra? Non abbiamo risposte chiare al momento.
V.G. Torniamo adesso sulla cassa integrazione. Tutte le aziende hanno diritto a chiederla?
C.C. Per il Co-Vid19 sostanzialmente si. Tutte le aziende. Sono stati previsti più strumenti. Si parte con la cassa integrazione ordinaria, c’è una disciplina di legge contenuta nel 148 del 2015, che prevede i requisiti di accesso alla cassa di integrazione ordinaria, a quella straordinaria, all’assegno ordinario e la cassa in deroga. Questa disciplina è stata riadattata per l’emergenza, in maniera tale che chi non accede all’uno, acceda all’altro. Gli strumenti sul tavolo sono tre ad oggi: la cassa di integrazione ordinaria, l’assegno ordinario e la cassa in deroga. E volendo sintetizzare, chi ha accesso all’assegno ordinario o alla cassa ordinaria, accede alla cassa in deroga. Quindi, le misure poste in essere, con il D.L. Cura Italia, sono capaci di coprire tutte le imprese, per la causale specifica Co-Vid-19.
V.G. Ma torniamo sempre lì, non ci sono i fondi. Giusto?
C.C. Esatto. Non riusciamo infatti a coprire la cassa integrazione per 30milioni di lavoratori, perché questi sappiamo essere i numeri. Benissimo l’estensione, ma occorrerebbero più fondi certamente. Inoltre le dico che già si entra in conflitto con le gestioni, ci sono infatti le verifiche da effettuare sulle aziende per accertarsi che siano in regola con i contributi prima di erogare il sussidio e sarà già facile entrare nelle criticità tecniche. Le faccio un esempio: con il fondo degli artigiani si è generato un problema, per le aziende che non erano in regola con i contributi e non erano iscritti al fondo. Il fondo degli artigiani alla luce della politica intera ha negato il sussidio.
V.G. Cosa vorrebbe dire ai lavoratori e cosa direbbe al Governo in questo momento?
C.C. Ai lavoratori direi innanzitutto di non perdere la speranza e di rimboccarsi le maniche in attesa di un lavoro, che a mio parere dovrà arrivare molto presto.
Direi di tener duro, perché la situazione ripartirà, seppur gradualmente. Non disperiamo, nemmeno con atteggiamenti irrazionali, come se ne vedono già soprattutto al sud. È solo una situazione di congelamento. Consiglio di accedere a tutti i sussidi, che malgrado i limiti, sul tappeto ci sono, dal reddito minimo garantito, alla possibilità di accedere alla cassa integrazione dove possibile, alla NASPI, cioè alla indennità di disoccupazione.
Al Governo, sembrerà banale, ma direi di lavorare allo stanziamento di più risorse, anche in deroga. Anche in merito ai vincoli europei, andrà negoziata una deroga forte ai vincoli di bilancio, percepire dall’unione europea quanto è disponibile e lavorare per maggiori stanziamenti, soprattutto per risorse liquide, perché abbiamo bisogno di più liquidità. Nel D.L. Cura Italia, ci sono stanziamenti a favore delle imprese che sono il polmone del lavoro del Paese, sottoforma di garanzia ai prestiti, ma oggi ancora abbiamo il problema che chi accede ai prestiti dei finanziamenti sono coloro che hanno già questa liquidità. Poiché sappiamo che le banche aiutano chi non è in difficoltà e che l’accesso al credito è vincolato e sussistono ancora procedure rigide. Servirebbe una sorta di helicopter-money, distribuiti alle imprese per la riconversione industriale immediata, ma che sia accesso diretto alla liquidità.
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