Di Marco Giaconi
Per quel che riguarda il coronavirus in tutta l’area del grande Medio Oriente, ci sono da notare alcuni fattori politici e economici strutturali: la scarsa trasparenza, in primo luogo, di tutti gli Stati dell’area, poi la necessità, in economie già in grave crisi, di tornare subito al lavoro che, peraltro, nessun Paese dell’area ha completamente abbandonato, infine di entrare in qualche modo nel grande business degli aiuti internazionali.
In Iran, e i dati risalgono al 12 aprile scorso, le vittime del virus sono ufficialmente 26.200, distribuite in ben 266 città iraniane. Gli infetti sarebbero oltre 68mila. Ovviamente, i dati reali potrebbero essere molto più gravi.
Il vice-sindaco di Teheran ha annunciato alla IRNA, l’agenzia di Stato, che aggiungerà 10.000 nuove tombe “di nuove dimensioni” (sic) al cimitero Behesht-e-Zahra della capitale, ma tutto i leader iraniani sostengono oggi la decisione di far tornare subito tutti al lavoro, il che porterà certamente a una ecatombe. Si noti, poi, che solo il 6-10% dei pazienti da Covid-19 è stato identificato, in Iran, tutti gli altri si sono posti in auto-quarantena a casa.
Il Pil di Teheran si contrae, oggi, di circa il 3%, mentre si prevede che moriranno fino a tre milioni e mezzo di persone. In altri termini l’Iran, come altri Paesi medio-orientali, rischia il collasso sociale e economico.
Il Qatar ha annunciato l’invio di aiuti a Teheran, il Kuwait donerà 10 milioni di Usd, ed è comunque probabile che la crisi da coronavirus sia l’antefatto di una migliore relazione tra l’Iran e i Paesi sunniti del Golfo.
L’Iran ha, poi, chiuso le scuole e le università e sospeso i voli IranAir verso l’Europa, fino a nuovo ordine.
Ma Teheran ha inoltre chiesto un finanziamento di 5 milioni di dollari al Fondo Monetario Internazionale, per la prima volta in ben 60 anni.
Ci sono, poi, almeno 5,5 milioni di rifugiati siriani in tutto il Levante, mentre in Iraq risiedono temporaneamente 1,5 milioni di IDP, Internally Displaced Persons, siasiriani che di altre aree in fase di destabilizzazione nel Medio Oriente attuale, e il covid-19 sta arrivando rapidamente in queste zone e a queste popolazioni.
C’è poi un nesso, evidente, tra caduta dell’export di petrolio e arrivo della pandemia nell’area; infatti la Cina, il primo mercato del barile saudita, non acquisisce idrocarburi nella quantità solita, con una conseguente spirale tra aumento dei costi (di import degli alimentari, dei farmaci, etc.) in Arabia Saudita e la caduta inevitabile delle vendite petrolifere.
Inoltre, è stato deciso il lockdown dell’area saudita di Al Qatif, a maggioranza sciita.
In tutto il Medio Oriente, la questione della pandemia virale riaccende poi polemiche settarie, nelle quali il gruppo tradizionalmente avverso gioca sempre il ruolo di untore.
Nello Yemen, ormai divenuto un relitto statuale dopo la lunga guerra Houthy-Sauditi, non ci sono ancora segnali di infezione da coronavirus, ma in ogni caso vi si trovano già 310.000 rifugiati, africani e mediorientali, con una diffusione rapida del colera, che si pensa abbia già colpito circa 2 milioni di persone.
Tutto l’area, quindi, mostra le caratteristiche più adatte per uno sviluppo rapido e completo del Covid-19.
In Israele, con oltre 1234 ammalati e 6000 portatori del virus, le normative sono particolarmente severe e solo lo stato ebraico, come è accaduto anche all’Iran, ha autorizzato i propri servizi a tracciare i telefoni dei cittadini infetti.
Ci sono oggi le prime infezioni da coronavirus a Gaza, con pochissimi malati, e nella West Bank, con 56 infetti.
In Arabia Saudita, le autorità hanno notificato fino a oggi 511 casi, mentre è stato subito deciso un coprifuoco.
153 sono i casi verificatisi, secondo le fonti ufficiali, negli Emirati Arab Uniti.
Il caso del Libano è particolare: ha dichiarato da poco il default su un ritorno di 1,2 milioni di dollari, la sanità è largamente privatizzata e, per i tantissimi poveri, funziona solo la rete sanitaria volontaria sciita di Hezb’ollah.
In totale, i malati da Covid-19, in tutta l‘area mediorientale, dovrebbero essere almeno 100.000, compresi i 27.000 casi della Turchia, mentre in Giordania si sono verificati meno di 400 casi.
Ovvero: per molti dei maggiori Paesi dell’area, la crisi da coronavirus può essere tale da destabilizzare completamente sia la finanza pubblica, sia la già bassa produttività, sia soprattutto il potenziale di sviluppo.
Per la pandemia attuale, si verifica che, in ogni scenario bellico mediorientale, i partners maggiori accelerano i tempi del loro abbandono, e questo potrebbe creare dei vuoti (per esempio in Siria) in cui potrebbero svilupparsi gli attori locali: i para-jihadisti a Idlib, per esempio.
Certo, in una situazione come quella yemenita, dove, in questi giorni, il cessate il fuoco proclamato dai sauditi è stato interrotto centinaia di volte dagli Houthy, ci sono oggi 24 milioni di persone in pienissima crisi umanitaria, senza acqua né cibo né, tantomeno, medicine.
Lo Yemen, quindi, può diventare molto facilmente una “bomba” umanitaria, per usare il pessimo gergo dei giornalisti, ma producendo una crisi sanitaria tale da decidere comunque il risultato della guerra in corso.
In Libia, le operazioni tese al mantenimento del cessate il fuoco non sono più ritenute così importanti, dato il rilievo che sta assumendo la pandemia.
Per quel che riguarda i Paesi produttori di petrolio, c’è la grande sfida della diversificazione economica che, però, non può non seguire criteri molto diversi da Paese a Paese: il breakeven price del barile è di 45 Usd in Qatar, 54 in Kuwait, 91 usd in Bahrein, 83 in Arabia Saudita e 70 per gli Emirati.
Ma tutti i produttori mediorientali, ancora oggi, sperano che funzioni l’accordo, del 9 aprile scorso, che taglia del 10% la produzione di tutti i Paesi Opec con l’Opec+ insieme alla Russia e gli Usa.
Se questo accordo reggerà, sarà possibile mantenere un tasso di differenziazione economica accettabile e l’aumento della spesa pubblica (o la diminuzione delle entrate) a causa del coronavirus.
Una soluzione possibile, per tutti i Paesi produttori mediorientali, è quella di ricorrere ai loro Fondi Sovrani e, insieme, limitare la spesa pubblica.
Il che vuol dire rispedire a casa, ovvero in Marocco, Egitto, Siria, Libano, Giordania e Tunisia migliaia di lavoratori ospiti delle petro-monarchie.
Solo per l’Egitto, le rimesse dei lavoratori emigrati valgono, come è accaduto nel 2019, 25 miliardi di usd, il che le rende la prima fonte di valuta pregiata per il Cairo.
In Libano, recentemente in default, le rimesse valgono il 12,7% del Pil, al 2018.
Proprio il Libano ha già pagato pesantemente la pandemia, visto che Riyadh ha deciso, invece di sostenere le finanze libanesi, di utilizzare i fondi per il probabile bailout di Beirut per la spesa interna contro la pandemia.
La Giordania deve ripagare 1,76 miliardi di usd entro quest’anno, il Pakistan e il Marocco sanno che, quest’anno, non avranno il potente sostegno finanziario delle petromonarchie.
Quindi: la crisi economica dell’Occidente, consumatore di petrolio, creerà una forte diminuzione delle entrate nei paesi produttori.
Il che, in una fase di inevitabile crescita della spesa pubblica, grazie alla pandemia, genererà o il default dei tanti Paesi mediorientali debitori o l’instabilità, talvolta definitiva, al loro interno.
9 – continua
- “Una concezione adattiva della Storia” di Pierluigi Fagan.
- “La Chiesa contro il coronavirus: il mondo sulle spalle di Francesco” di Emanuel Pietrobon.
- “Che ne sarà di noi?” di Gustavo Boni.
- “Dai campioni nazionali al golden power: le prospettive della tutela del sistema-Paese”, conversazione con Alessandro Aresu.
- “Le rotte della “Via dela seta della salute” di Diego Angelo Bertozzi.
- “Coronavirus e sorveglianza” di Vittorio Ray.
- “La pandemia e la rinascita” di Attilio Sodi Russotto.
- “Coronavirus in Africa: verso la tempesta perfetta?” di Gaetano Magno.
- Il Medio Oriente e la minaccia del Covid-19 di Marco Giaconi.
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