Per scopo di informazione e utilità generale intendiamo presentare tre contributi che riteniamo importanti per contrastare paure e preoccupazioni sul tema del coronavirus, invitando a un’analisi attenta dei fenomeni che permetta di fugare, da un lato, possibili irresponsabili sottovalutazioni del fenomeno e, dall’altro, esagerazioni capaci di creare panico e allarme sociale.
A tal proposito, abbiamo voluto presentare tre analisi afferenti a campi differenti ma complementari, per segnalare le fonti più affidabili e documentate con cui fare chiarezza sugli sviluppi del Covid-19:
- In un primo articolo, vogliamo rilanciare l’appello alla calma e alla razionalità della virologa Ilaria Capua, che dal giugno del 2016 dirige il dipartimento dell’Emerging Pathogens Institute dell’Università della Florida. Consigliamo apertamente la lettura della sua rubrica su “Fanpage.it”, recentemente inaugurata: una boccata d’aria fresca nel campo dell’informazione medica nazionale.
- Riproponiamo poi un recente editoriale del nostro direttore Aldo Giannuli, pubblicato su “Formiche”, in cui si invita a capire come il principale rischio legato al Covid-19 sia, oggigiorno, connesso ai suoi effetti sulla tenuta dell’architettura economica globale. E che, al di là del numero dei morti e dei contagi, il messaggio più importante lanciato dal coronavirus sia stata la sua capacità di concretizzare tutte le difficoltà e i problemi che insorgono per contenere un contagio internazionale nell’era della globalizzazione accelerata.
- Infine, da cultori delle materie strategiche e della geopolitica, non potevamo non presentare l’interessante analisi di Paolo Mauri per “Inside Over” in cui si fa chiarezza su un tema molto dibattuto: l’origine del Covid-19 è da imputare a una manovra compiuta in un laboratorio militare? In uno studio approfondito, Mauri si pone in modo critico su questo tema, portando prove che a suo parere smentirebbero l’ipotesi del Covid-19 come arma batteriologica.
Coronavirus, il contagio era inevitabile: ora l’unica cura è rispettare le regole
Di Ilaria Capua – Fanpage.it, 21 febbraio 2020 (vai all’articolo originale)
Chiamiamo le cose con il loro nome: questa che stiamo vivendo oggi, con sedici casi finora accertati in un giorno solo, è una emergenza sanitaria che possiamo chiamare sindrome influenzale da Coronavirus. Influenzale, già. Perché questa infezione provoca nella stragrande maggioranza dei casi sintomi molto lievi e solo in pochi casi – con patologie intercorrenti e con situazioni particolari – provoca effetti gravi. Esattamente come ogni normale influenza.
Che cosa stiamo osservando di diverso, allora? Perché siamo tanto spaventati? Semplice: perché alcuni hanno avuto l’ottimismo un po’ illusorio di fermare un virus con questo elevatissimo livello di trasmissibilità. Abbiamo creduto che la Cina, con le misure draconiane che ha messo in atto, potesse tenersi tutto il contagio.
Era illusorio, e ora lo vediamo in tutta la sua banalità. Anche perché c’è stata una grossa movimentazione di studenti prima delle misure di quarantena, a causa delle vacanze legate al capodanno cinese. Sebbene l’epicentro fosse Wuhan e la provincia di Hubei, la trasmissione era già iniziata da settimane e la sindrome influenzale da Coronavirus era già uscita nel resto della Cina. Queste persone, già contagiate, ne hanno contagiate altre, che a loro volta si sono mosse ancora. Ecco perché oggi abbiamo un focolaio con alta trasmissibilità in Giappone, così come in Corea, così come in Iran. Sinceramente, non si capisce per quale motivo pensassimo che l’Italia potesse immaginare di essere risparmiata. Perché i virus non aspettano. E l’efficacia delle misure di quarantena è legata all’immediatezza della risposta.
Noi però siamo un Paese occidentale, con un sistema sanitario che funziona, e di questo dobbiamo essere orgogliosi e consapevoli. Però dobbiamo fare anche altro: dobbiamo fare il più grosso sforzo di responsabilità collettiva della nostra Storia. Il problema vero di questa malattia è infatti che si infettino tantissime persone contemporaneamente. Cosa che bloccherebbe i servizi, intaserebbe gli ospedali e darebbe un grosso colpo alla produttività del Paese.
Nei prossimi giorni, presumibilmente, saranno suggerite una serie di linee guida proposte dalle organizzazioni internazionali che saranno recepite dallo Stato, dalle Regioni, dai Comuni. Noi dobbiamo semplicemente – si fa per dire – fare lo sforzo di rispettare quelle regole. In questo momento non c’è tempo per l’improvvisazione. Non c’è tempo di dire “Io non credo a quel che mi dicono le istituzioni”. Non c’è tempo per fake news, teorie del complotto, negozionismo. È un’emergenza sanitaria, questa, che non riguarda noi come singoli, ma che ci riguarda come comunità e come sistema Paese. Noi dobbiamo essere parte della soluzione e non parte del problema.
Il rischio contagio (da sanitario ad economico) secondo Giannuli
Di Aldo Giannuli – Formiche, 23 febbraio 2020 (vai all’articolo originale)
L’epidemia di Coronavirus, o, se preferite, Covid-19, inizia a farsi seriamente preoccupante. Inizialmente, sembrava che la cosa fosse sotto controllo e che il picco fosse destinato ad arrivare in tre settimane, poi le cose si sono fatte molto più serie. Il punto è che il primo caso di polmonite da Covid-19 è stato diagnosticato all’inizio della seconda settimana di dicembre e lo stesso Xi Jinping ha riconosciuto di aver assunto le prime misure il 7 gennaio, ma fino alla fine di gennaio, il governo cinese ha soppresso ogni tipo di informazione in proposito, per cui la gente non ha preso nessuna precauzione ed il virus ha iniziato a viaggiare.
Tuttavia, questa brutta storia –che speriamo finisca presto- si presta a riflessioni non marginali su cosa siano le epidemie al tempo della globalizzazione.
In primo luogo, sgombriamo il campo da una suggestione che serpeggia nel web: che il virus possa essere stato prodotto e veicolato intenzionalmente da un qualche Stato straniero per colpire la Cina. Per quanto tutto sia possibile e pazzi criminali non manchino neppure negli apparati statali, la cosa non è affatto probabile, perché l’eventuale attentatore esporrebbe anche il suo Paese al rischio del contagio ed, inoltre, anche una crisi economica conseguente colpirebbe tutti, compreso il paese aggressore. Per cui, in mancanza di qualche indizio convincente, non sembra che si possa prendere in considerazione questa ipotesi (ma riprenderemo il punto più avanti).
Più probabile (ma sino ad un certo punto), è l’ipotesi di una manipolazione di laboratorio sfuggita di mano agli stessi cinesi. E l’Huffington Post ha pubblicato un protocollo relativo alla manipolazione di virus da pipistrelli che sembra avere contatti con questo di cui ci preoccupiamo. Si sa di esperimenti del genere fatti da diversi Stati in un passato non troppo remoto, però si è sempre trattato di esperimenti condotti in laboratori con sede in località desertiche o glaciali, che qualcuno possa essere stato coì folle da fare esperimenti del genere in una città di 11 milioni di abitanti – o nei suoi dintorni- è cosa che supera la più pessimistica considerazione sulla stupidità umana. Dunque, anche questa è ipotesi scarsamente probabile da non prendere in considerazione in assenza di altri indizi.
Piuttosto, sembra ragionevole pensare che si tratti dello stesso virus della Sars che abbia subito mutazioni genetiche in questi 15 anni, magari attraverso scambi fra uomo e animale. Comunque toccherà ai virologi dirci sino a che punto sia vero.
Poniamoci una prima domanda: perché il governo cinese ha taciuto così a lungo? A quanto pare i primi casi sono stati diagnosticati nei primi di dicembre, ma questo non significa che il governo ne sia stato reso edotto immediatamente. Il regime cinese è molto autoritario, come si sa, ed ha una catena di comando lunga e complessa, lungo la quale ciascun gradino si pone il problema del se sta facendo un errore a segnalare un possibile contagio epidemico che forse non c’è e l’errore potrebbe costargli molto caro. Per cui la trasmissione dell’informazione mette molto tempo a risalire lungo la catena di comando (ecco uno dei vantaggi della democrazia rispetto alle dittature!). Ma, anche il vertice ha aspettato un bel po’ (almeno due settimane) prima di lanciare l’allarme. Il punto è che anche il Capo supremo ha da temere dovendo annunciare una notizia del genere e non solo per le reazioni popolari, ma anche per quelle della stessa nomenklatura di regime che potrebbe avvalersi anche si un antico mito, per il quale ogni dinastia regna per mandato divino e cade quando il “cielo” ritira il mandato: le epidemie sono uno dei segni precisi del ritiro del mandato. Certo, siamo nel XXI secolo e la Cina ha avuto il suo processo di secolarizzazione, ma i miti sono duri a scomparire e talvolta resistono come inconscio residuo.
Comunque sia, è evidente che Xi ha assunto delle misure nella speranza che bastassero a frenare l’epidemia (che forse non sapeva quanto già avesse messo radici) e potesse scansare una nuova Sars. E, invece, è stato peggio: quando ha deciso di passare all’azione, era già troppo tardi. Il punto è che, al di là delle intenzioni, un regime di quel tipo funziona in quel modo ed è lentissimo nell’assumere misure davanti a casi del genere.
E qui facciamo i conti con il problema del come la globalizzazione cambi i termini di una epidemia. Nella Storia ci sono stati casi di pandemie diffuse in ambiti geografici molto vasti, ma, in primo luogo, mai di dimensioni mondiali ed in secondo luogo, con tempi di diffusione molto più lenti: nel 1878 l’epidemia di colera scoppiata a Sumatra (nella quale perì Nino Bixio) arrivò in Europa sette o otto mesi dopo. Viaggiava molta meno gente e con mezzi molto più lenti di quelli di oggi. L’unica eccezione relativa (che forse converrebbe andare a studiare nuovamente) fu quella della Spagnola (anche quella una peste polmonare) fra il 1918 ed il 1919, una affezione respiratoria letale, che, però si estinse nel giro di pochi mesi per essere subito dimenticata.
Qui invece ci troviamo di fronte ad un contagio che, in poche settimane, dalla Cina ha raggiunto Hong Kong, Macao, Corea del Sud, Giappone, Vietnam, Germania, Italia, Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Singapore, Thailandia, Malesia, Taiwan, Australia, Emirati Arabi, Filippine, India, Egitto, Russia, Spagna, Belgio, Nepal, Sri Lanka, Svezia, Cambogia, Finlandia. Vero è che, con l’eccezione di Cina e Giappone, si tratta in genere di poche decine si casi o addirittura poche unità, ma questo non deve farci fare troppe illusioni: abbiamo strumenti efficaci per individuare tempestivamente gli infetti ed isolarli, ma il rischio è che al focolaio cinese se ne aggiungano altri. In parte questo è già il caso giapponese, ma il timore serio è che il contagio possa insediarsi in Africa dove le condizioni igienico-sanitarie sono decisamente disastrose e dove l’epidemia potrebbe espandersi rapidamente, anche se le popolazioni africane, mediamente, si spostano molto meno dei cinesi. E se dovessero crearsi più focolari nel mondo, ci starebbe poco da stare allegri: spento un focolaio ne nascerebbe un altro, per poi riaccendere l’epidemia anche dove era stata domata, magari anche con pochi nuovi casi. Ed il contagio potrebbe durare molto a lungo.
Che fare? Chiudere le frontiere? Ma è possibile in un mondo iper connesso? Dovremmo bloccare il turismo, le missioni militari, gli studenti all’estero, gli scambi commerciali, i lavoratori frontalieri, fermare navi ed aerei, eccetera eccetera.. È pensabile? E quando anche fosse possibile attuare queste misure, per quanto tempo sarebbero sopportabili per l’economia mondiale? Realisticamente poi alcuni giorni, al massimo qualche settimana. E se l’epidemia durasse di più?
Già ci sono i sintomi di un nuovo contagio: quello economico: alcuni settori (turismo, lusso, moda) sono già in forte difficoltà, mentre si osserva un rallentamento nel manifatturiero in generale, ma in particolare nel settore auto. E il coronavirus giunge a ricordarci che, grazie alla delocalizzazione, la Cina è il massimo produttore di auto che poi arrivano nei mercati occidentali, per cui uno stop alla produzione cinese si traduce subito in una caduta delle immatricolazioni prima di tutto in Cina (dove a febbraio il tasso di nuove immatricolazioni è caduto del 92%), ma dopo anche in Europa, anche grazie all’assenza elementi di componentistica (vi è piaciuta la “fabbrica globale”? )
Se l’emergenza dovesse durare altri 30-40 giorni (e tutto fa pensare che non duri meno), sarebbe una bella botta per la domanda aggregata mondiale (si stima intorno all’1%), un dato molto serio ma non drammatico. Ma se dovesse durare oltre, magari sino a maggio-giugno, possiamo mettere in conto sin d’ora una nuova recessione mondiale anche peggiore di quella che aprì le porte alla crisi del 2008. E, peraltro, i segnali di una crisi del genere già ci sono soprattutto in Europa, per cui poggiarci su un macigno del genere potrebbe avere conseguenze imprevedibili. Anche perché, nella crisi del 2008, fu proprio la “locomotiva cinese” che risollevò la domanda aggregata mondiale poggiando sul tavolo oltre 600 miliardi di dollari di stimoli finanziari, mentre qui la Cina è il vagone morto e non più la locomotiva. PeR di più, la Cina a breve dovrà affrontare l’impatto della crescita zero demografica, per cui avrà da provvedere ad una popolazione inattiva ben più numerosa del passato.
Fermiamoci qui per un momento per constatare come si sia di fronte ad un doppio contagio: sanitario ed economico e come questo doppio contagio interagisca ed in tempi ridottissimi.
Fortunatamente siamo in presenza di un virus non eccessivamente pericoloso, con indici limitati di contagio (per quanto, nel caso lombardo, abbiamo avuto una ventina di infetti che fanno riferimento ad un solo portatore sano –peraltro negativo ai test-) e poco letale (sembra non schiodarsi al 3% di morti fra i contagiati)… sperando che l’agente patogeno non si virulenti nel passaggio da uomo a uomo.
Ma, anche lasciando perdere gli scenari più pessimistici, questa epidemia ci insegna una cosa: nel mondo della globalizzazione i vecchi argini al contagio (quarantena, chiusura delle frontiere eccetera) funzionano poco. Con masse umane di queste proporzioni che viaggiano da un estremo all’altro del mondo ogni giorno, queste misure servono a poco. Inoltre, chiudere le frontiere può servire per gli spostamenti legali, ma non certo per quelli clandestini, anzi, se la situazione dovesse protrarsi, una misura del genere potrebbe rivelarsi controproducente, perché con i flussi normali, all’aeroporto, nei porti o nelle stazioni possiamo pensare a controlli sanitari che filtrino un po’ gli arrivi, mentre con gli spostamenti clandestini non avremmo nessun controllo. Per cui, chiudere le frontiere potrebbe spingere una parte, anche piccola, dei flussi normali verso la clandestinità e, con questo, alimentare i vettori di contagio. Sconsigliabile.
E bisogna misurarsi anche con rischi sin qui sconosciuti. Ad esempio, un attacco batteriologico uno Stato non lo fa, ma un gruppo terroristico sì. Il grande contagio è anche un ottimo diversivo che tiene occupate gran parte delle forze di ciascuno Stato, una situazione molto favorevole ai traffici di un gruppo terroristico che potrebbe avere la tentazione di incrementare il disastro. Un gruppo terroristico normalmente non dispone di laboratori per manipolare batteri e virus, ma una volta che una epidemia c’è non ha difficoltà a procurarsi materiale infetto o a veicolare persone contagiate (anche se deve l’operazione non è semplice o priva di rischi). E si pensi ancora una volta al rischio di una ondata in Africa.
In un mondo così, la difesa perde: occorre andare all’attacco, ad esempio, monitorando costantemente ed in sede internazionale l’andamento batteriologico per scrutare i segnali di evoluzioni pericolose in arrivo. Occorre avere vaccini generici e medicine in grado di rallentare i contagi, per dare il tempo della ricerca di medicamenti più mirati. Si può fare e sino a che punto: tocca ai medici, ed in particolare ai virologi dircelo ed ai governi stanziare i fondi necessari ad una ricerca di queste proporzioni.
Coronavirus e armi batteriologiche: sfatiamo il mito
Di Paolo Mauri – Inside Over, 23 febbraio 2020 (vai all’articolo originale)
Il suo nome ufficiale è Sars-Cov-2. È il virus responsabile dei casi di Covid19, ovvero la malattia che sta avendo caratteristiche di pandemia che ha spinto l’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, a dichiarare l’emergenza sanitaria globale, cosa già avvenuta in passato per le epidemie di H1N1, Zika ed Ebola.
Il virus è uno dei tanti “coronavirus” che sono stati scoperti e che hanno colpito la popolazione umana nel corso degli anni. Non è un caso si chiami “Sars-Cov” in quanto ha in comune almeno il 70% del patrimonio genetico con un altro ben noto, e molto più pericoloso, “coronavirus”: la Sars.
Oltre a Sars-Cov-2, che per semplificazione narrativa chiameremo Covid19, e oltre al virus della Sars, ne esistono altri cinque: HCov-OC43, HCov-HKU1 (betacoronavirus), HCov-229E, HCov-NL63 (alphacoronavirus) e il Mers-Cov.
Come alcuni di voi ricorderanno l’epidemia di Sars-Cov esplose in Cina, nella provincia di Guangdong, nel novembre del 2002, mentre quella di Mers-Cov è più recente e risale al 2012 ed il primo caso è stato registrato in Arabia Saudita.
Al 22 febbraio, in base ai dati pubblicati dal Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (Ecdc) nel sito dedicato al focolaio da nuovo coronavirus, sono stati notificati complessivamente 77825 casi confermati in laboratorio di Covid19, di cui 2359 decessi. Un tasso di letalità pari al 3,03%.
Piccola parentesi terminologica: il tasso di letalità è un rapporto tra il numero dei morti e quello dei contagiati, il tasso di mortalità invece tra il numero dei morti e quello dell’intera popolazione (sana e non).
Se il 3% di letalità sembra tanto, occorre però considerare che altre due malattie da coronavirus che hanno assunto le caratteristiche di epidemia in passato hanno avuto tassi molto più alti: 9,5% per la Sars e 34,5% per la Mers.
Ora che abbiamo inquadrato la malattia nel suo “albero genealogico” possiamo addentrarci nel tema principale, ovvero provare a fare chiarezza sulle varie teorie che circolano a riguardo la nascita del virus Covid19.
Le teorie sull’origine della pandemia di Covid19
Attualmente esistono tre narrazioni sulle genesi della malattia.
La prima, quella principale e diremmo ufficiale, che sia derivata da una qualche forma di passaggio naturale del virus tra animale e uomo, in quanto esistono prove crescenti che dimostrano il legame tra Covid19 e altri coronavirus noti simili e circolanti tra i pipistrelli. Più precisamente quelli delle sottospecie di pipistrelli rhinolophus. Queste sottospecie sono abbondanti e ampiamente presenti nella Cina meridionale e in tutta l’Asia, il Medio Oriente, l’Africa e l’Europa. Studi recenti indicano che sono stati identificati oltre 500 tipi di coronavirus nei pipistrelli in Cina. Sotto la lente d’ingrandimento sarebbero quindi le abitudini alimentari dei cinesi in quella regione.
La seconda riferisce di un possibile esperimento sul virus andato fuori controllo nei laboratori cinesi. Secondo due biologi della South China University of Technology “le possibili origini del coronavirus 2019-nCoV potrebbero avere come causa gli animali infetti tenuti in laboratorio dal Centro per il Controllo delle Malattie di Wuhan (Whcdc), tra cui 605 pipistrelli”. “Il Whcdc è anche vicino all’Union Hospital dove il primo gruppo di medici è stato infettato durante questa epidemia. È plausibile che il virus sia trapelato e che alcuni di essi abbiano contaminato i pazienti iniziali, sebbene siano necessarie nuove prove”. La tesi dei ricercatori, come riportato anche da Adnkronos, è che i pipistrelli una volta hanno attaccato un ricercatore e “il loro sangue è finito sulla sua pelle”. Tesi suffragata da indagini sul genoma del virus, che è stato dimostrato essere identico in una percentuale che oscilla tra l’89 e il 96% a quello del coronavirus Bat Cov ZC45, ovvero quello dei pipistrelli. Il virus quindi sarebbe trapelato dal laboratorio, dopo il primo passaggio tra animale e uomo, che si trova a dodici chilometri da Wuhan.
La terza tesi, più complottista, è quella che Covid19 sia in realtà un’arma batteriologica studiata dagli Stati Uniti per colpire la Cina in un momento in cui Pechino sta sfidando apertamente l’egemonia di Washington sul piano globale.
Facciamo finta per un momento di non sapere che, sebbene la Cina stia compiendo passi da gigante nel campo della tecnologia militare, sia ampiamente indietro rispetto agli Usa per il semplice fatto che non dispone delle stesse capacità di proiezione di forza e nemmeno ha un arsenale nucleare tale da essere considerabile un efficace strumento per un first strike, ma solo in grado di offrire una, al momento moderata, capacità di dissuasione e deterrenza. Facciamo anche finta di non sapere che la Cina non ha le stesse capacità Istar (Intelligence Surveillance Target Acquisition and Reconnaissance) che hanno gli Stati Uniti, e che sono fondamentali nel quadro del controllo del campo di battaglia e anche per lo stesso controllo della situazione globale. Facciamo finta di non sapere che la strategia americana è quella di contenere le potenze locali affinché non diventino egemoni su di uno scacchiere regionale, con possibilità di futura proiezione globale, e che pertanto gli attriti tra Washington e Pechino vadano inquadrati in questo senso piuttosto che in quello di una minaccia diretta all’egemonia globale americana, che non c’è (almeno per il momento), in quanto, lo ricordiamo, sono le navi militari battenti bandiera a stelle e strisce a pattugliare il Mar Cinese Meridionale, non quelle cinesi a farlo nel Golfo del Messico.
Limitiamoci quindi a considerare se sia possibile che Covid19 possa essere o meno un’arma batteriologica.
Le caratteristiche di un’arma batteriologica
Per capirlo ci vengono in aiuto gli stessi manuali militari che fissano i parametri affinché un agente patogeno possa essere utilizzato come arma batteriologica. Parametri che sono mutuati dalla virologia ma che, contrariamente a quanto possa pensare la vulgata, non sono per nulla intuitivi e soprattutto vanno considerati e rispettati nel loro insieme, pertanto anche se uno solo di questi viene a mancare, non si può parlare di arma batteriologica.
Essi sono sette:
- La virulenza, che misura la patogenicità (o potere patogeno) di un agente, ossia quanto esso è capace di provocare una malattia e di indurre lesioni nei tessuti colpiti, che deve essere pesante anche se non necessariamente letale –
- L’infettività, che misura con quanta facilità un agente patogeno è in grado di infettare l’ospite. L’infettività è inversamente proporzionale al numero di organismi necessari per l’instaurarsi dell’infezione in un determinato ospite e si può considerare come la quantità di agente richiesto per scatenare l’infezione, che deve essere molto bassa per mantenere basso il rapporto dose/efficacia.-
- La stabilità, cioè la capacità di un patogeno di sopravvivere per tempi più o meno lunghi al di fuori dell’ospite finché non colpisce la vittima designata, che deve essere moderata. –
- Il grado di immunità naturale che deve essere necessariamente basso per poter assicurare la diffusione del contagio –
- La disponibilità di vaccini specifici per garantire agli utilizzatori delle armi biologiche l’immunità alle stesse –
- La possibilità di intervenire con terapie idonee per ridurre il malessere fisico che deve essere scarsa –
- La trasmissibilità, cioè la facilità con cui la malattia si diffonde, che deve essere molto bassa al fine di non diffondere troppo l’epidemia e circoscriverla al gruppo di persone che si vuole colpire. A corollario di questo principio il tempo di incubazione deve necessariamente essere relativamente breve, per evitare che la fase asintomatica possa causare una diffusione dei soggetti colpiti col rischio di espansione incontrollata del contagio.
Covid19 quindi riesce a soddisfare tutti questi criteri?
Per quanto riguarda la virulenza della malattia i dati ufficiali sono ancora incerti, ma la maggior parte dei casi attualmente confermati sembra avere una malattia lieve, e circa il 20% sembra progredire verso una malattia grave: polmonite, insufficienza respiratoria e in alcuni casi morte. Tali forme gravi sembra che si manifestino più spesso in soggetti già immunodepressi, debilitati da altre patologie, o anziani.
Per quanto riguarda l’infettività sembra che sia alta: secondo l’Ecdc il rischio di infezione per coloro che risiedono o sono in visita in zone con presunta trasmissione locale è, al momento, alto. Questo significa che il patogeno, che si trasmette principalmente per droplet e per contatto, ha un rapporto dose/efficacia basso.
La stabilità al momento non è calcolabile in quanto i tempi di sopravvivenza e le condizioni che incidono sulla persistenza di Covid19 nell’ambiente sono attualmente sconosciuti, anche se è stata notata una certa capacità di permanenza sulle superfici che quindi vanno disinfettate accuratamente.
Il grado di immunità naturale è alto: una buona percentuale di contagiati sta guarendo naturalmente e la malattia, come già detto, è caratterizzata da una letalità sensibilmente inferiore rispetto a quella osservata per altri coronavirus.
Per quanto riguarda la disponibilità di un vaccino specifico, questo ancora non esiste, e molto probabilmente non esisterà ancora per un periodo che va dai 6 ai 18 mesi. Questo è uno dei punti fondamentali per capire che non si può parlare di arma batteriologica: nessuno, infatti, ricorrerebbe ad una simile soluzione col rischio di essere a sua volta esposto al contagio non avendo un vaccino a disposizione, ed il virus è stato rilevato anche negli Stati Uniti.
La possibilità di intervenire con terapie idonee per ridurre il malessere sembra scarsa: attualmente non ci sono terapie consigliate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, e nelle linee guida sull’assistenza ai pazienti sono indicate solo terapie di supporto, come l’ossigeno-terapia, la somministrazione di fluidi e l’uso empirico di antibiotici per trattare eventuali co-infezioni batteriche. Su alcuni pazienti si stanno però utilizzando alcuni farmaci già in uso o in sperimentazione per altre patologie, mentre per altri sono iniziati i test preclinici in vista di un possibile uso. Il 18 febbraio l’Iss riporta che il Chinese Clinical Trial Registry ha annunciato l’avvio di una sperimentazione clinica con clorochina (un antimalarico dimostratosi efficace in vitro e su modelli animali contro numerosi virus tra cui il coronavirus della Sars) e del lopinavir/r (una combinazione di due farmaci precedentemente usata con successo contro un altro tipo di virus – Hiv – ed utilizzata precedentemente durante l’epidemia di Sars che colpì la Cina nel 2003) e i primi risultati per quanto riguarda il primo farmaco sembrano incoraggianti.
La trasmissibilità del virus, il secondo fattore più importante per capire se i tratti di un’arma batteriologica, è alquanto elevata soprattutto se paragonata ad altri virus come la Mers o la Aviaria (H7N9). Questa caratteristica si misura tramite un parametro chiamato R0 (si legge “R naught”). Se si stima che ogni persona ne contagi un’altra, R0 equivale a 1, se invece l’indicatore risulta elevato rispetto al valore 1, significa che ogni persona ne sta contagiando più di una, e cioè che il virus si sta diffondendo velocemente. Covid19 ha un R0 compreso tra 1,4 e 5,5 (il morbillo, per fare un paragone, fa segnare un valore compreso tra 12 e 18, l’Hiv tra 2 e 4) mentre altre malattie molto più letali, nella fattispecie la Mers e l’Aviaria, hanno un R0 inferiore a 1, fattore che, preso singolarmente, ne farebbe paradossalmente degli agenti più idonei per un’arma batteriologica. Il tempo di incubazione poi, stabilito tra i 2 e i 14 giorni, è mediamente troppo lungo.
Siamo davanti quindi ad un’arma batteriologica? Stante queste considerazioni possiamo dire di no: l’assenza di un vaccino, l’elevata trasmissibilità, la bassa virulenza, il buon livello di immunità naturale sono indicatori che non ci troviamo ad avere a che fare con questa possibilità.
Chi scrive pensa che le spiegazioni più logiche sull’origine di questa pandemia siano essenzialmente due, ovvero quella naturale oppure quella di un esperimento di laboratorio sfuggito di mano; esperimento che forse era volto alla ricerca di un vaccino polivalente per i coronavirus, che, storicamente, sembrano originarsi più spesso in quelle regioni del mondo.
La logica dell’arma batteriologica, che si basa esclusivamente sul molto filosofico ma poco scientifico principio del cui prodest, non regge, né per motivazioni geopolitiche in senso generale né per le motivazioni tecniche sulle armi di questo tipo come abbiamo avuto modo di vedere.
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