Dallo Stato-imprenditore allo Stato-stratega: dibattito sull’Iri

gen 11, 2020 0 comments

Di Andrea Muratore

Nelle ultime settimane la crisi industriale dell’Ilva, con la problematica partita apertasi tra il governo e Arcelor-Mittal, unitamente al nuovo rinfocolamento del caso-Alitalia ha riportato in auge il tema dello “stato-imprenditore”, del coinvolgimento pubblico nell’economia funzionale allo svolgimento della politica industriale, e la parola “Iri” è ritornata prepotentemente nel dibattito.
Il modello di riferimento, nel dibattito italiano, non ha potuto che essere l’Istituto di Ricostruzione Industriale (Iri), il conglomerato fondato nel 1933 per iniziativa di Alberto Beneduce e divenuto nel secondo dopoguerra il principale braccio operativo del sistema di economia mista che ha guidato la rinascita del Paese. L’Iri, fino alla crisi conclusiva della Prima Repubblica che segnò l’inizio della sua messa in liquidazione (terminata nel 2002), ampliò gradualmente il suo perimetro sino a risultare protagonista nei principali gangli strategici del sistema Paese: dal ramo bancario (azionista in Banco di Roma, Credito Italiano e Banca Commerciale Italiana) alla siderurgia (Finsider, l’antenato dell’Ilva), passando per le telecomunicazioni (Stet), la cantieristica e la difesa (Fincantieri e Finmeccanica) e i trasporti (controllando Alitalia e le autostrade). Nel 1993, quando il governo Ciampi iniziò la sua graduale privatizzazione, l’Iri era il settimo conglomerato al mondo per dimensione, potendo contare su un fatturato superiore ai 67 miliardi di dollari.
L’Iri è stato citato esplicitamente dal Ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli (Movimento Cinque Stelle) che ha affermato esplicitamente di non essere contrario al “ritorno” al sistema di gestione statale, nel contesto di una forte critica alle modalità di privatizzazione delle proprietà dell’ente. Riteniamo necessario contestualizzare nel migliore dei modi la questione per evitare che il dibattito si riduca a prese di posizioni fini a sé stesse e che non contribuiscono al tema cruciale del dibattito su un’evoluzione dell’attuale sistema di gestione degli asset cruciali del Paese: come può tornare l’Italia ad avere una politica industriale degna di questo nome? Come possono essere bilanciati equamente gli interessi del governo e del Paese nella gestione degli asset chiave dell’economia e le prospettive di sviluppo di un’impresa privata capace di produrre sviluppo e occupazione?

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Iri si, Iri no. Due opinioni a confronto

Con queste premesse il dibattito è alzato di livello e inserito in un’ottica sistemica. In questa direzione vanno numerose pubblicazioni che nelle ultime settimane non sono mancate e hanno portato aria fresca alla discussione sul tema. Sul fronte degli scettici si è distinto un interessante articolo pubblicato da Francesco Bruno su Econopoly de Il Sole 24 Ore, mentre tra coloro che non hanno chiuso alla possibilità di uno “Stato-imprenditore” di ritorno è stato rilevante il contributo di Alessandro Aresu.
Bruno, in maniera pragmatica, critica l’intervento sul tema “nuovo Iri” del ministro Patuanelli in un post pubblicato su Facebook, ritenuto dal commentatore confusionario. “Non sono riuscito a comprendere quali dovrebbero essere le funzioni del soggetto pubblico evocato. In un primo momento il post menziona politiche di innovazione, facendo pensare ad investimenti pubblici in ricerca e sviluppo. Poi però si passa al desiderio di evitare shock al sistema produttivo e occupazionale, al green new deal ed infine ad una banca pubblica”. Scarsa chiarezza nella definizione degli obiettivi e tentativi acrobatici di un soggetto “pigliatutto” in cui far convergere la risposta a problematiche e esigenze diverse del sistema-Paese. Tale concezione, secondo Bruno, rischierebbe di accentuare la già esistenza tendenza del Mise a trasformarsi in un “comitato fallimentare” permanente per tutelare imprese in perdita. Più nebulosa è la parte dell’intervento in cui Bruno sottolinea la sostanziale convergenza tra impresa pubblica e privata: “si fa fatica a comprendere che non è dirimente il tipo di proprietà, pubblica o privata. Ciò che conta veramente è se l’impresa svolga la sua attività con criteri di governance societaria moderni e in un regime di mercato concorrenziale oppure se sia favorita (o danneggiata) dall’intervento pubblico”.
Ma lo “Stato-imprenditore” dovrebbe, in linea teorica, superare questa dicotomia basata unicamente sulla proprietà e supplire a esigenze strategiche capaci di trascendere i meri fini di profitto di breve termine. La Stet con le telecomunicazioni, l’Italstat in ambito infrastrutturale e la Finsider con l’acciaio sono esempi, in tal senso illuminanti. E su questo pensiero-cardine si innesta il ragionamento di Aresu.
In un’analisi pubblicata su Atlante,rivista di approfondimento della Treccani, Aresu ricorda come il fenomeno dello “Stato-imprenditore” descritto nell’analogo saggio di Marianna Mazzucato sia la norma nell’era contemporanea.
E, anzi, a ben vedere l’Italia si trova oggi nel mirino di tre tipologie di Stati di questo tipo: quello franceseprimeggiante in Europa per “la vicenda di lungo corso della costruzione dello Stato francese attraverso corpi che prevedono una forte relazione tra pubblico e privato, tra le imprese e lo Stato; il ruolo militare della Francia, che è ben superiore rispetto a quello degli altri Paesi europei; il modo con cui la Francia ha razionalizzato i suoi strumenti di partecipazione nelle imprese”; quello cinese, la cui manifestazione è l’utilizzo dell’intervento pubblico e delle imprese di Stato da parte del Partito comunista come braccio armato per l’espansione geostrategica del Paese; infine, quello statunitense, la cui proiezione è sotto gli occhi di tutti con l’apparato mondiale del Pentagono e la ramificazione della rete a stelle e strisce e delle imprese del big tech, che hanno avuto a Washington il loro incubatore politico ed economico.
“In ogni caso, “piani” e “programmi” economici fanno pienamente parte della realtà internazionale. La differenza sta sempre nel modo con cui vengono attuati”, sottolinea Aresu. In che modo un Paese come l’Italia potrebbe dare seguito alle necessità della sua economia e rispondere alle domande che precedentemente ci eravamo posti? L’analista sardo ha provato a proporre una sua ipotesi in un’ulteriore pubblicazione per StartMag.
“All’Iri non è stato consentito di sopravvivere, snellito e ristrutturato, per custodire un grande patrimonio culturale e svolgere due compiti essenziali: la promozione e la connessione di una scuola di manager industriali; l’investimento in ricerca e trasferimento tecnologico”. Metaforicamente, di nuovi Iri ne servirebbero…tre, a certificare le principali funzioni che secondo Aresu l’intervento pubblico in economia dovrebbe espletare. Servirebbe un Istituto per il Rilancio dell’Innovazione, un Istituto per la Realizzazione delle Infrastrutture, un Istituto per il Rafforzamento delle Imprese. In altre parole, l’Italia potrebbe conoscere una nuova stagione di fioritura dell’economia a gestione pubblica ricostruendo un progetto nazionale ben definito.

Fonte e articolo completo: http://osservatorioglobalizzazione.it/progetto-italia/iri-leterno-ritorno/

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