Di Matteo Lupetti
All’Internazionale Situazionista sarebbero interessati i videogiochi. L’Internazionale Situazionista nacque nel 1957, quando Guy Debord fuse la precedente Internazionale Lettrista con il Movimento internazionale per una Bauhaus immaginista, ed ebbe una grande importanza nel porre le basi del Sessantotto europeo, nella speranza di una «immaginazione al potere». Ma nei primi anni applicò soprattutto marxismo e filosofia hegeliana per pensare un nuovo modo di costruire e vivere le città, perché la rivoluzione potesse avere spazi altrettanto rivoluzionari. I Situazionisti erano insoddisfatti con l’edilizia dell’epoca e con il funzionalismo dell’architettura di Le Corbusier. «Lasciamo volentieri al signor Le Corbusier il suo stile, adatto a fabbriche e ospedali. E anche alle prigioni del futuro, certo: non sta forse già costruendo chiese?», scrive Gilles Ivain nel 1953 (ma il testo sarà pubblicato nel primo numero della rivista Internazionale Situazionista nel 1958 in una versione edita da Guy Debord stesso).
L’obiettivo dei Situazionisti era prima di tutto la creazione di «situazioni», momenti «costruiti deliberatamente dall’organizzazione collettiva di un ambiente unitario [cioè nato dalla combinazione di ogni arte] e da un gioco di eventi». Il luogo in cui questo sarebbe dovuto succedere non poteva che essere la città, lo spazio dove gli uomini vivono, ma per riuscirci serviva una nuova teoria urbanistica, un «Urbanismo Unitario», cioè «l’uso combinato di ogni arte e di ogni tecnica nella costruzione integrale di un ambiente dinamicamente connesso con esperienze comportamentali». E per studiare come le città avevano sinora influito sulle persone e per ideare la loro città del futuro, i Situazionisti si affidarono a una disciplina chiamata «psicogeografia», lo studio degli «effetti, volutamente pianificati o no, del contesto geografico sul comportamento degli individui» (tutte queste definizioni vengono dall’Internazionale Situazionista del 1958). A sua volta, lo studio della psicogeografia, cioè degli effetti della città sull’uomo, poteva essere svolto con la pratica nota come «deriva», definita già nel 1954 sulla rivista Potlatch come «una tecnica di locomozione priva di obiettivi e che dipende dagli influssi dei luoghi». Vagando a caso e senza meta (e spesso ubriachi o drogati) i membri dell’Internazionale Situazionista si spostavano nella città solo sotto l’influenza della città stessa, e in questo modo potevano capire dove la città li portasse e gli effetti dei suoi luoghi. Potevano capirne, insomma, la psicogeografia.
Apparentemente, gli spazi digitali dei videogiochi sembrano i luoghi cercati dai Situazionisti, luoghi costruiti unendo tutte le arti in un’unica disciplina e progettati davvero per il gioco, per la nascita di situazioni e per far emergere comportamenti. «L’architettura si conforma alla funzione: mangio qui e dormo là. Qui lavoro e là leggo. L’architetto lo ha attentamente studiato. Tutto serve al suo scopo. Ma dove è che dovrei ridere o piangere? Dove è il posto per odiare o per respirare?» si chiede nel 1965 l’architetto Günther Feuerstein. I videogiochi sembrano la risposta: le loro città e le loro stanze non sono fatte per mangiare, per dormire o per lavorare ma solo per giocare, per piangere, per avere paura. I videogiochi offrono esperienze collettive (nei «multiplayer») e luoghi pronti a sorprendere, alcuni sfruttano algoritmi per creare mappe sempre diverse, altri danno la possibilità ai giocatori di modificare la geografia secondo il sogno situazionista di una città sempre mutevole e magari mutabile per opera dei suoi stessi abitanti.
«Una delle ragioni per cui le città sono tanto importanti nei giochi e che sono importanti nella vita reale», spiega Konstantinos Dimopoulos, esperto di città virtuali e autore del volume Virtual Cities: An atlas & exploration of video game cities. «E sono tanto importanti nella vita reale, soprattutto nel capitalismo, perché sono gli snodi economici e geografici della produzione e del consumo. Sono campi di battaglia politica e ideologica di immensa importanza.»
«[…] Non direi però che le città siano centrali nei videogiochi quanto lo sono nella vita reale», aggiunge Dimopoulos. «Sono presenti, certo, ma molti giochi sono felici di ignorarle». Anche quando i videogiochi non presentano spazi urbani la loro non è comunque una vera «natura», un territorio selvaggio: tutto quello che appare nel gioco è programmato e in qualche misura pianificato dai suoi sviluppatori, è uno spazio umano e pensato per umani (per chi gioca). La città chiamata City 17 del videogioco d’azione in prima persona Half-Life 2 ci guida con graffiti, con l’attento posizionamento delle munizioni da recuperare e dei nemici da sconfiggere, ma anche con il volo di stormi di corvi che attirano e spostano il nostro sguardo. Lo sviluppatore può muovere e manipolare l’intera realtà digitale, e i videogiochi hanno imparato ad applicare tutti gli strumenti studiati dalla psicogeografia. Geometrie, architetture, colori, suoni e luci indirizzano chi gioca verso i suoi obiettivi e creano emozioni e narrazioni, mentre i personaggi non giocanti (cioè quelli controllati dal software) sostituiscono ciò che nel mondo reale è la polizia, ostacolandoci o dirigendoci secondo la volontà dell’autorità. All’inizio di Half-Life 2 il mio compito è proprio muovermi nella città evitando la polizia e i suoi posti di blocco.
C’è però un’importante differenza tra città videoludica e città reale: la città reale è una creazione stratificata. Secoli di potere l’hanno costruita e demolita per necessità diverse, a volte in completa contraddizione l’una con l’altra. In alcuni paesi europei, come l’Italia, è spesso ancora possibile riconoscere la struttura del campo militare romano con cardo e decumano, a cui si sovrappongono o affiancano i labirintici quartieri medievali centrati sullo spazio comune della piazza/Chiesa, a cui a loro volta si sovrappongono centinaia di anni di stravolgimenti, ricostruzioni dopo eventi catastrofici e, più vicino a noi, le conseguenze del boom economico del secondo dopoguerra. «Tutte le città sono geologiche, ed è impossibile fare tre passi senza incontrare fantasmi che portano con loro tutto il prestigio delle loro leggende», scrive Gilles Ivain nel testo già citato e pubblicato nel primo numero della rivista Internazionale Situazionista. Il videogioco offre in questo senso un’occasione difficile da trovare nelle città reali: l’esplorazione psicogeografica di uno spazio costruito e gestito da un’unica autorità.
FONTE E ARTICOLO COMPLETO: https://not.neroeditions.com/psicogeografia-e-videogiochi/
Commenti
Posta un commento
Partecipa alla discussione