Di Flores Tovo
La malattia mortale del nostro tempo è la disperazione. Letteralmente questa parola significa non aver più speranza, il che implica il tormento che se ne prova. L’idioma spagnolo usa il verbo esperar nel doppio senso di sperare ed attendere. La disperazione è quindi una mancanza di attesa, poiché non si ha più nessun progetto o desiderio da realizzare, in quanto viene a cessare la dimensione temporale del futuro. Ma qual è l’essenza di questa situazione emotiva, che è la più pervasiva e penetrante, poiché essa costituisce consapevolmente (per pochi) o inconsapevolmente (per molti) la sentimentalità profonda del nostro tempo, che è un tempo essenzialmente disperato? Il filosofo danese Kierkegaard è stato colui, più di ogni altro, che ha cercato di penetrare l’essenza di questa malattia, sia pure da un punto di vista religioso cristiano. Egli affermava che la disperazione è :
“… una malattia dello spirito, nell’io, e così può essere triplice: la disperazione di non essere consapevole di avere un io ( disperazione impropria); la disperazione di non voler essere se stesso; la disperazione di voler essere se stesso” (1).
La disperazione per questo filosofo può essere oltre che una mancanza, anche un vantaggio, un vantaggio “immenso”, poiché per un cristiano, come era Kierkegaard, guarire da questa malattia voleva dire acquisire dentro di sé la fede, che era il vero antidoto della disperazione. Ora, tuttavia, si vive in un mondo dove gli Dei sono fuggiti e Dio è morto, per cui la situazione emotiva della disperazione ha perso la prospettiva di un interiore possibilità di guarigione. Così pure quell’immenso vantaggio si è dileguato. Le tre forme della disperazione vanno quindi esaminate secondo una impostazione in cui Dio, o meglio l’Essere, forse si sta togliendo per sempre come coappartenente all’esserci umano. La disperazione “di non essere consapevole di avere un io” è definita da Kierkegaard impropria, poiché si tratta di un uomo che non è ancora pervenuto alla formazione di un’autocoscienza ossia di un io “che si rapporta a se stesso, oppure è, nel rapporto, il rapportarsi che il rapporto si rapporta a se stesso”, per cui “l’io non è il rapporto, ma il rapportarsi a se stesso” (2). Questo uomo inconsapevole appartiene certamente al mondo zoologico in cui il pensiero è di fatto istinto, oppure, secondo Kierkegaard, a quel mondo pagano in cui gli Dei erano presenti nel mondo quotidiano, nel mondo dei boschi, dei fiumi, dei monti. L’io in questo mondo non avvertiva il conflitto o la tensione problematica verso una trascendenza infinita, proprio perché gli Dei erano presenti in ogni dove. Per un pagano quindi la disperazione non esiste, mentre comincia a palesarsi con la diffusione del cristianesimo. Lo stesso Hegel riteneva, quando descriveva la figura della coscienza infelice, che l’incarnazione nel Cristo spalancava “l’ingresso dell’infinito nel finito”, e che quindi, di parallelo, nasceva quel bisogno di trascendenza che poneva il vero Essere fuori dal mondo terreno . E’ chiaro che Kierkegaard riteneva comunque che anche il pagano era un disperato inconsapevole, in quanto il suo “io” non coglieva la dimensione psichica ed emotiva della trascendenza spirituale.
La seconda forma della disperazione, intesa come “il non voler essere se stesso” è sicuramente la cifra rivelativa dello stato di abbandono spirituale in cui giace l’uomo “civile” contemporaneo. Pascal per primo aveva intuito con la teoria del “divertissement” che la maggioranza degli uomini tende a stordirsi, a dimenticare se stessi, per sfuggire alla paura della morte e alle proprie responsabilità . Ma è soprattutto con Heidegger che viene riassunta, in alcune straordinarie pagine del suo capolavoro “Essere e tempo”, la condizione spirituale dell’uomo d’oggi e perciò la sua totale disperazione. Egli, indagando sulla deiezione esistenziale (la caduta a livello degli oggetti) dell’esserci umano, ne coglie gli aspetti peculiari della suo vivere inautentico, che sono la chiacchiera (Gerede), la curiosità (Neugier) e l’equivoco sistematico (ZweideutigKeit). Queste pagine sono state saccheggiate da tutti i filosofi, sociologi, psicologi e tanti altri aspiranti intellettuali oggi esistenti, per cui non ci soffermeremo più di tanto. Diremo solo che la chiacchiera è la “…presunzione di possedere sin dall’inizio la comprensione di ciò di cui si parla” e ciò “..impedisce ogni riesame e ogni nuova discussione, svalutandoli o ritardandoli in modo caratteristico”. La chiacchiera è perciò “sempre e recisamente un procedimento di chiusura”. La curiosità è invece caratterizzata da “…una tipica incapacità di soffermarsi su ciò che si presenta”. La curiosità è perciò “distrazione”. Infine l’equivoco offre “costantemente alla curiosità ciò che essa va cercando e dà alla chiacchiera l’illusione che tutto sia deciso da essa” (3).
FONTE E ARTICOLO COMPLETO: https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=62441
che meravigliosa presa di Coscienza. Complimenti e grazie.
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