Di Andrea Muratore
Nel gennaio 1999 l’euro entrava formalmente in vigore attraverso il blocco dei rapporti di cambio tra le valute dei Paesi in cui la moneta unica europea avrebbe iniziato a circolare a partire dal 1 gennaio 2002. A vent’anni di distanza, l’Eurozona risulta, in termini aggregati, una delle economie più importanti del pianeta e l’euro è oramai secondo, per quanto a lunga distanza, al solo dollaro come importanza nelle transazioni internazionali.
Mario Draghi, che si può legittimamente considerare come l’uomo che tra il 2012 e il 2015 ha salvato l’euro, perlomeno sul breve periodo, dalle disastrose conseguenze delle politiche di austerità, ha sottolineato nel suo messaggio di fine anno che oramai, in Europa, è nata un’intera generazione che “non conosce altra moneta”, mentre Jean-Claude Juncker ha definito l’euro “un simbolo di unità, sovranità e stabilità”.
Se quanto detto da Draghi è un dato di fatto, Juncker è molto impreciso. A vent’anni di distanza, possiamo dire che l’integrazione economica abbia avuto vincitori e vinti. E il nostro Paese, l’Italia, si trova purtroppo nella seconda categoria. Anche nel mondo dell’economia i maggiori ricercatori sono divisi sul giudizio da dare alle prime due decadi di integrazione monetaria europea. Forse il “tramonto dell’euro” di cui ha scritto anni fa Alberto Bagnai non è alle porte, ma di sicuro al suo posto, come spiegato dall’attuale senatore della Lega, si è verificato il tramonto di numerosi sistemi economici del continente, tra cui quello italiano ha subito le conseguenze più drastiche.
Vincitori e vinti dell’euro secondo Bloomberg
L’agenzia di informazione finanziaria Bloomberg ha approfittato dell’anniversario per redigere un accurato bilancio del primo ventennio della moneta unica, valutando 16 Paesi dell’Eurozona in base a dieci diversi parametri legati alla competitività dell’economia, all’integrazione ai mercati internazionali e alle capacità di rispondere alle crisi sistemiche e cercando di determinare i “vincitori” e i “vinti”. L’Italia, come anticipato, è nel secondo gruppo, intervallato da cinque nazioni intermedie, assieme a Francia e Spagna.
Come si legge sul report: “Vent’anni di adesione all’euro non hanno portato nulla all’Italia. Legando la sua economia ad alta inflazione all’export tedesco senza adottare misure per aiutare le imprese a competere, l’Italia ha perso una guerra di logoramento”. Si rovescia il classico mantra, portato avanti da diversi commentatori ed economisti nostrani come Carlo Cottarelli, che le principali problematiche per l’Italia fossero legate alla sua inadeguatezza all’esperimento della moneta comune. Di fatto, è il sistema stesso delle regole comunitarie a limitare il nostro Paese nella sua azione, rendendolo di fatto satellite del mercantilismo tedesco.
Un’Europa a due velocità
Si è modellata un’Europa a più velocità che deve adattare il suo ritmo a seconda delle preferenze della vettura di testa, che lungi dall’essere una locomotiva è una motrice ingolfata. “Eppure”, scrive Libero, “due decenni or sono, fra i capi di Stato e di governo fu unanime l’illusione circa gli effetti rivoluzionari che avrebbe rappresentato l’adozione della moneta unica. Erano tutti convinti che i meccanismi economici avrebbero ricevuto una potente spinta propulsiva e che si sarebbe avuta anche una forte accelerazione dell’integrazione politica”.
La realtà è stata molto più prosaica. Uno spazio economico si è accentrato attorno a un nucleo ristretto di Paesi (la Germania e i “nordici”) che con il combinato disposto di rigore monetario, deflazione salariale interna e rispetto selettivo delle regole imposte ad altri hanno costruito un sistema congeniale alle loro esportazioni ad alto valore aggiunto. Salvo ricadute sociali che solo ora cominciano a palesarsi in tutta la loro grandezza.
Premi Nobel contro l’euro
Numerosi economisti di fama mondiale hanno espresso dubbi sulla capacità di tenuta dell’euro sul lungo periodo. Tra questi, è necessario citare alcuni premiati dalla più alta onorificenza nel campo dell’economia: il Premio Nobel. Oliver Hart, Nobel 2016, ha accusato la Commissione europea di essere andata “troppo oltre” nel suo tentativo di centralizzare il controllo sulle economie nazionali e di aver forzato un’integrazione omogenea impossibile. Stessa accusa che già nel 1998 venne proferita dal padre nobile del neoliberismo, Milton Friedman. Secondo Friedman , “più che unire, la moneta unica crea problemi e divide. Sposta in politica anche quelle che sono questioni economiche. La conseguenza più seria, però, è che l’euro costituisce un passo per un sempre maggiore ruolo di regolazione da parte di Bruxelles. Una centralizzazione burocratica sempre più accentuata”.
Paul Krugman, Nobel nel 2008, e Joseph Stiglitz, Nobel nel 2001, hanno criticato invece gli effetti strutturali sull’economia europea causati dall’euro. Secondo Stiglitz, l’euro si basa sulla svalutazione interna dei Paesi membri e “non è stata ancora presentata alcuna proposta di una strategia per la crescita sebbene le sue componenti siano già ben note, ovvero delle politiche in grado di gestire gli squilibri interni dell’Europa e l’enorme surplus esterno tedesco che è ormai pari a quello della Cina (e più alto del doppio rispetto al PIL). In termini concreti, ciò implica un aumento degli stipendi in Germania e politiche industriali in grado di promuovere le esportazioni e la produttività nelle economie periferiche dell’Europa”.
Paul Krugman, invece, ha definito l’euro un progetto “campato in aria” per la mancanza di integrazione fiscale e di una reale solidarietà capace di ridurne gli squilibri. Finchè durerà l’euro, secondo Krugman, “l’Europa sarà sempre fragile. La sua moneta è un progetto campato in aria e lo resterà fino alla creazione di una garanzia bancaria europea”.
Una Bce al servizio della crescita rafforzerebbe l’euro?
Nello stesso articolo in cui esprime queste critiche, tuttavia, Krugman sottolinea come l’Europa non sia ancora un continente in pieno declino, ma ” un continente produttivo e dinamico. Ha soltanto sbagliato a scegliersi la propria governance e le sue istituzioni di controllo economico, ma a questo si può sicuramente porre rimedio”.
E porre rimedio si può in un 2019 che inizia con la fine del quantitative easing, il “bazooka di Draghi” che, assieme al celebre whatever it takes del 2012, ha tenuto l’euro in linea di galleggiamento fino ad oggi. Ora tuttavia, mentre la finanza mondiale sembra dirigersi verso una nuova crisi, proprio la Banca Centrale Europea potrebbe rappresentare un fattore di riequilibrio tra i diversi Paesi.
Porre in essere strumenti di assicurazione di parte dei debiti pubblici nazionali e di riduzione degli squilibri interni garantirebbe un po’ di respiro a un sistema che in vent’anni ha visto le sue faglie interne espandersi enormemente. L’euro non è irreversibile, né definirlo tale lo metterà al riparo da nuove crisi pari a quella debitoria del 2010-2011.
Il fatto di avere una banca centrale, la Bce, che non garantisce il debito pubblico dei singoli Paesi, rappresenta una contraddizione gravissima. Ciò significa che i singoli Paesi si indebitano in una valuta che non controllano, che non possono stampare, una valuta straniera, zattere in preda ai marosi dei mercati. Il risultato, in Italia, lo abbiamo sotto i nostri occhi. Vinti tra i vinti, assistiamo tuttavia alla sordità dei “vincitori” temporanei, a cui si associa anche un altro sconfitto, la Francia, per mascherare la sua situazione. Draghi e la Bce hanno garantito sollievo all’euro. Solo una riforma dell’Eurotower potrebbe dargli stabilità e rendere possibile che tra vent’anni si possano fare nuovi bilanci su una valuta ancora esistente.
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