Di Daniele Dell'Orco
Sarà capitato a molti di imbattersi in foto inquietanti delle sovraffollate metropolitane delle megalopoli cinesi, indiane, brasiliane o statunitensi. Tanti altri, magari, ne hanno persino esperienze dirette. Il Giappone non fa eccezione, ma ciò che rende differente da tutte le altre il metrò di Tokyo, ad esempio, è la straordinaria capacità dei nipponici di occupare gli spazi. Il modo in cui una persona riesce ad affrontare un viaggio in un vagone rimanendo chiuso in pochi centimetri quadrati e senza la minima lamentela è un ritratto del pragmatismo, della compostezza e della disciplina del Sol Levante. Per i lavoratori giapponesi nelle grandi città è stato persino coniato un neologismo: sushi-zume, un termine che paragona in sostanza i pendolari schiacciati nella metro ai chicchi di riso pressati nell’alga del sushi.
Per quanto si possa mantenere aplomb si tratta di esperienze universalmente stressanti. Ed è una delle componenti con cui i lavoratori giapponesi si confrontano ogni giorno, stante la famigerata cultura del paese che comprime la maggior parte delle persone in lunghe ed intense ore di lavoro (un quarto dei dipendenti nipponici ne totalizza 80 al mese solo di straordinari) in uffici regolati da rigidissime gerarchie. La vita professionale, insomma, prosciuga. E i casi di karoshi, la morte da super lavoro, sono sensibilmente aumentati negli ultimi anni (raggiungono ormai la spaventosa cifra di 2mila l’anno). Ma pur essendo esposti a simili quantitativi di stress, come riescono ad essere tra i popoli più longevi al mondo?
Cos’è l’ikigai
Il segreto potrebbe avere a che fare con quello che i giapponesi chiamano ikigai. Non esiste una traduzione diretta in italiano, ma è un termine che incarna l’idea di gioia di vivere. In sostanza, l’ikigai corrisponde al motivo per cui ci si alza al mattino.
Per coloro che in Occidente che hanno più familiarità con il concetto di ikigai, questo è spesso associato a un diagramma di Venn con quattro qualità che si sovrappongono: ciò che si ama, ciò che si è bravi a fare, ciò di cui il mondo ha bisogno e ciò per cui si può essere pagati.
Per i giapponesi, tuttavia, l’idea è sottilmente diversa. Il proprio ikigai può non avere nulla a che fare con il lavoro, né tanto meno col reddito.
In tempi recenti, un sondaggio condotto dal Central Research Services tra 2mila uomini e donne giapponesi ha raccolto un misero 31% tra gli intervistati che consideravano il lavoro come proprio ikigai. Il che non stupisce più di tanto, poiché da sempre in Giappone si concepisce l’occupazione come servizio per la società, non come prospettiva meramente individuale. Tutti i lavori, in questo senso, hanno pari valore.
L’origine dell’ikigai
In un documento di ricerca del 2001, uno dei coautori, Akihiro Hasegawa, psicologo clinico e professore associato all’Università di Toyo Eiwa, provvide di fatto ad inserire la parola ikigai nella lingua giapponese quotidiana. Si compone di due parole: iki, che significa vita e gai, che ne descrive appunto il valore.
Secondo Hasegawa, l’origine dell’espressione risale al periodo Heian (794-1185) laddove gaideriva dalla parola kai (“conchiglia”, che all’epoca era considerata un bene prezioso). Ci sono altre parole che inglobano kai allo stesso modo: yarigai e hatarakigai che significano il valore nel fare e il valore nel lavorare. Ikigai può essere così ragionato come un concetto completo che incorpora tutti questi aspetti della vita.
Tra la sterminata letteratura giapponese dedicata al tema, un libro in particolare è considerato quello più esaustivo: Ikigai-ni-tsuite (Sull’ikigai), pubblicato per la prima volta nel 1966. L’autore del libro, lo psichiatra Mieko Kamiya, spiega che, come parola in sé ikigai sarebbe sì simile a “felicità“, ma con una sottile differenza. Che però cambia tutto. Ikigai è ciò che permette di guardare al futuro anche se si è infelici in un determinato momento.
La ragione di questa distinzione è anch’essa idiomatica: in italiano infatti il termine vita corrisponde all’esistenza in sé ma pure a vita quotidiana. In giapponese, invece, i due concetti sono separati: jinsei significa vita e seikatsu significa quotidianità. Il concetto di ikigai si allinea così di più a seikatsu, considerato il prodotto della somma di piccole gioie della vita quotidiana che la rendono più appagante nel suo complesso.
La ragione di questa distinzione è anch’essa idiomatica: in italiano infatti il termine vita corrisponde all’esistenza in sé ma pure a vita quotidiana. In giapponese, invece, i due concetti sono separati: jinsei significa vita e seikatsu significa quotidianità. Il concetto di ikigai si allinea così di più a seikatsu, considerato il prodotto della somma di piccole gioie della vita quotidiana che la rendono più appagante nel suo complesso.
Ikigai e longevità
Come detto, il popolo giapponese è tra i più longevi al mondo (l’aspettativa di vita è di 87 anni per le donne e 81 anni per gli uomini). Un dato stupefacente se si immagina che in questa stessa classifica occupava una delle posizioni più basse negli anni del secondo dopoguerra. L’esempio dell’isola di Okinawa, poi, è diventato un vero caso di studio visto che si è trasformata in una enclave di centenari. Parte del merito sembra essere dovuto a quell’elisir di eterna giovinezza che è la dieta isolana nipponica: una combinazione di porzioni piccole (una famosa massima giapponese dice: “Mangia come se dovessi riempirti fino all’80%”) e cibi a basso contenuto calorico come il tofu, il pesce (alghe, calamari, polpo, tutti a basso rischio di incidenza su malattie come cancro allo stomaco, arteriosclerosi e il colesterolo) e tantissima verdura. Persino l’uso, quasi abuso, di tè verde rientrerebbe in queste ultra salutari abitudini alimentari.
Oltre la dieta, però, anche il ruolo dell’ikigai è tutt’altro che secondario. L’ottimo stato di salute che tiene gli anziani lontani dagli ospedali non è sufficiente se non si trovano dentro di sé le motivazioni per svegliarsi al mattino anche in età avanzata. Il pensionamento infatti può portare un enorme senso di perdita e vuoto per coloro che magari avevano proiettato sul lavoro il proprio ikigai.
Ma per facilitare la continua ricerca di un senso della vita in tutto il Paese le persone che si avvicinano alla terza età vengono celebrate, incensate e invitate a trasmettere la loro saggezza alle giovani generazioni. Già questo fornisce loro uno scopo nella vita al di fuori di se stessi, ancora al servizio della loro comunità.
Diversificare l’ikigai
È proprio questo il concetto di diversificazione dell’ikigai. Una summa che nasce dall’incrocio di tre liste del tutto individuali: i valori di riferimento, gli interessi primari e le proprie capacità pratiche. Il prodotto è ovviamente mutevole col passare degli anni e quindi la chiave del processo di ricerca dell’ikigai è in un certo senso la ricerca stessa. Ognuno lo possiede come centro nevralgico della propria vita ma non tutti riescono a scoprirlo senza accettare di dover intraprendere un rigido percorso di autodisciplina e di scoperta di se stessi. Qualcosa che in Oriente è compreso già in teologie come buddhismo, taoismo o lo stesso shintoismo. E che, in modo del tutto speculare all’anzianità, caratterizza altre fasi delicate della vita come l’adolescenza. Un momento chiave poiché quello in cui risulta più facile lasciarsi corrompere da prospettive meramente materiali che per l’immediato potrebbero sembrare allettanti ma che andranno gioco-forza a caratterizzare un lasso di tempo piuttosto lungo. In quella fase, la felicità viene fatta corrispondere quasi per intero alla stabilità economica che viene bramata con così tanta insistenza da corrompere lo spirito anche qualora la si dovesse ottenere.
L’ikigai, infatti, è il risultato di un equilibrio tra il desiderio e la naturalezza. Chi cerca la felicità ha un maggiore rischio di esserne ossessionato e, per questo, restare paradossalmente infelice in modo cronico. Gli spazi vuoti del diagramma di Venn immediatamente precedenti all’ikigaistanno a ritrarre proprio questi rischi sottesi: insoddisfazione, tristezza, frustrazione e senso di inutilità. Il proprio posto nel mondo, tuttavia, è lì a un passo. Basta riuscire a cambiare punto di vista.
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