Di Francesco Grillo
Un miliardo di utile e due miliardi di risultato operativo su 4 miliardi di ricavi. Sostanzialmente gli stessi dell’anno precedente. Un miliardo di utile che è, peraltro, delle imposte e, dunque, destinabile direttamente agli azionisti. Due miliardi di risultato operativo dopo aver pagato gli ammortamenti degli investimenti relativi all’ammodernamento e dei costi della manutenzione della rete di cui tutti parlano.
Bastano questi tre numeri che si possono, comodamente, trovare nel bilancio consolidato 2017 e 2016 di Autostrade per l'Italia per definire – meglio del diluvio delle parole che si è abbattuto sul nostro Paese dopo la tragedia del Ponte - la natura del problema diventato centrale nel dibattito politico ed economico. E per stabilire che – oggettivamente - quello di Autostrade non è un business ma una rendita costruita su una infrastruttura pubblica e che la questione della revisione dell’intero sistema delle concessioni è sacrosanta (anche se da affrontare con la perizia necessaria ad evitare altre bastonate per il contribuente italiano).
Autostrade S.p.A. è riuscita, dunque, nel miracolo di garantire ai propri azionisti un ritorno stabile sulle vendite del 25%. Per ogni euro di pedaggio (al quale si aggiungono i ricavi degli Autogrill che fanno parte dello stesso gruppo), venticinque centesimi netti vanno ai proprietari di Autostrade. Un risultato straordinario che si ripete in maniera stabile e ottenuto in un settore che dovrebbe essere maturo, anzi decotto.
Per avere un’idea di quanto eccezionale sia tale dato si consideri che quella che la più innovativa e intelligente impresa del mondo – Alphabet cioè Google – fa 12 miliardi di dollari di utili su 110 miliardi di fatturato a livello globale. Il ritorno sulle vendite che riesce a realizzare la multinazionale che fa viaggiare le idee e le informazioni del XXI secolo sulle sue piattaforme, è meno della metà di quello che riesce a ottenere Autostrade S.p.A. facendo viaggiare automobili e camion tra le città d’Italia.
Un pezzo di un’economia “vecchia” che usa infrastrutture che hanno un’età mediana superiore al mezzo secolo riesce a fare, in proporzione, più soldi di uno dei protagonisti di una mutazione che sta per cambiare il mondo e portando in strada le automobili a guida autonoma.
In realtà, le autostrade dovrebbero essere ancora più obsolete, se solo l’Italia non fosse rimasta - drammaticamente e maliziosamente - indietro nello sviluppo di infrastrutture che sono indispensabili in un Paese moderno. Con 981 kilometri di treni ad alta velocità (che, pure, sono stati sufficienti per svuotare tratti come quello tra Napoli e Roma), abbiamo una rete che è tre volte meno lunga di quella spagnola o francese, ed il numero di automobili (63 ogni 100 abitanti) è molto superiore a quello di Germania (55) e Francia (49) che, pure, ospitano due delle tre più grandi case automobilistiche del mondo. Situazione simile è, del resto, vera per la logistica più pesante che, dappertutto, si sta spostando su rotaia (e su acqua) laddove la strada è perdente da tutti i punti di vista: sicurezza, costi (soprattutto del personale), ambientali.
Quello della gestione delle autostrade è un settore più che maturo – anche se, persino, i ponti sono investiti da straordinarie innovazioni nei materiali, e che – da quanto, persino, i caselli sono automatizzati, diventa, davvero, una rendita con pochi rischi tranne quello dell’obsolescenza progressiva e dell’invecchiamento di una mucca che progressivamente produrrà sempre meno latte. Ciò che, però, fa impressione – prima ancora di analisi più puntuali sui contratti che un Governo serio dovrà fare – è che ad un “imprenditore” privato (anzi uno che era, davvero, capace di fare impresa quando negli anni ottanta inventò uno dei simboli di una globalizzazione che stava cominciando) sia regalato un così ingente bancomat. Per gestire un’attività così consolidata che – tanto per essere chiari – negli Stati Uniti e nel Regno Unito, nei Paesi dove hanno inventato il capitalismo e privatizzato la sanità e parte dell’educazione, è assolutamente pubblica. Gestita dallo Stato.
E allora, forse, stavolta è davvero arrivato il tempo di fare una profonda autocritica. Seria per tanti liberisti all’amatriciana che, forse, avevano qualche interesse da difendere. E per un Partito Democratico (che se continua a schivare qualsiasi conto con sé stesso, rischia l’estinzione. Risale al febbraio del 2018 (quatto settimane prima delle elezioni) l’ultima proroga (dal 2038 al 2042) della concessione nella quale si riconosce – esplicitamente e tranquillamente – al concessionario la garanzia di un ritorno dell’8 per cento sugli investimenti che il concessionario si impegnava a realizzare (entro il 2038): come se stessimo concedendo ad un privato una polizza assicurativa completamente fuori mercato.
Stavolta, dunque, ha certamente, ragione il Movimento 5 Stelle a voler rivedere tutto. Anche se ha torto chi avesse una pregiudiziale nei confronti di infrastrutture (ad alta velocità) che sono il “pedaggio” che un Paese nel suo complesso paga per entrare nel futuro. E sbaglia chi (compreso la Lega) insiste nel voler legare la vicenda concessione con quella delle responsabilità del disastro o della ricostruzione in una città spezzata in due. Ci sono decine di morti e questo è certamente il colpo definitivo a molte delle certezze rimaste di un Paese incapace di scuotersi. Ma questa volta si tratta di fare un’autocritica seria che riguarda il rapporto tra Stato e mercato che ha finito con lo svuotare le casse del primo, indebolire la nostra capacità di crescere. E che ha ridotto imprenditori visionari in ricchissimi amministratori di condominio.
Ormai è questione di sopravvivenza: la politica deve dimostrare di poter immaginare una concezione del potere diversa da quella furba e fallimentare che l’ha quasi uccisa.
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