Di Mauro Indelicato
Oggi splende il sole e la gente fa il bagno nelle vaste e suggestive spiagge che, da Licata, arrivano a cingere il territorio comunale di Agrigento. Mollarella, Nicolizia, Torre di Gaffe, passando per Zingarello, Cannatello e San Leone, fino a Porto Empedocle: da secoli queste contrade affacciate sul Mediterraneo assistono ad approdi di invasori, difensori, commercianti ed un tempo anche pirati. Sono passati 75 anni da quando, nella notte del 10 luglio 1943, queste lande meridionali della Sicilia hanno visto il comparire dei soldati americani e, con essi, lo svolgersi di uno degli episodi destinati a cambiare le sorti di quella guerra.
I 75 anni dal via all’operazione Husky
Per chi oggi è a mare in quelle spiagge la guerra, al massimo, è un qualcosa di vissuto nei racconti dei nonni. Tra i più piccoli, nati già nel nuovo secolo, forse nemmeno questo visto che i sopravvissuti di quel periodo per ovvi motivi sono molto di meno rispetto allo scorso decennio. Eppure in questa zone della Sicilia la guerra in quel 1943 fa repentinamente capolino ed influenza enormemente la quotidianità della popolazione. Ad inizio di quell’anno la zona meridionale dell’isola vive con lo spauracchio di un’invasione americana. Tutto questo appena pochi mesi prima appare come un avvenimento molto lontano dalla realtà, ma il timore che dal mare possano emergere soldati d’oltreoceano diventa a poco a poco sempre più marcato nella popolazione.
Del resto che qualcosa può capitare da un momento all’altro, lo si nota anche visivamente: vengono fortificati i litorali, vengono costruiti bastioni difensivi nelle spiagge, ad Agrigento il tempio della Concordia viene circondato da pile di sacchi di sabbia al fine di proteggerlo. Lo stato di guerra penetra dunque nelle vite dei siciliani che vivono tra Siracusa e Mazara. Dal cielo sulle città costiere piovono gli ordigni dei bombardamenti delle navi alleate: in tanti iniziano a pensare che il luogo di uno sbarco potrebbe essere Porto Empedocle, visto che le incursioni aeree nella primavera del 1943 si fanno sempre più intense ed il 5 aprile la cittadina del porto di Agrigento piange 25 vittime civili dopo un bombardamento.
Arrivano anche i proclami a decretare l’avanzamento dello stato di guerra: il 9 maggio il generale Mario Roatta, comandante generale dell’esercito in Sicilia, chiama a raccolta la popolazione invitandola ad avere fiducia nell’esercito per la difesa dell’isola. Un proclama che costa il posto a Roatta e che viene mal digerito dai siciliani per via di una presunta gaffe: “Voi siciliani e noi militari italiani dimostreremo al nemico che da qui non si passa” si legge, una distinzione tra cittadini siciliani e militari italiani che dona agli abitanti dell’isola un senso di abbandono più che di unione in vista di un’eventuale battaglia. Dopo che ad inizio giugno iniziano a circolare voci, poi confermate, sulla presa di Pantelleria e Lampedusa ad opera degli americani, tra Agrigento e Gela ci si prepara allo sbarco alleato. Ne dà testimonianza lo scrittore Andrea Camilleri, che proprio in quel mese di giugno è tenuto a sostenere gli esami di Stato al Liceo Classico “Empedocle” di Agrigento: il deterioramento progressivo della situazione, spinge alla chiusura anticipata delle scuole ed all’annullamento delle sessioni di esami.
Il 9 luglio 1943 il cielo viene segnalato fosco e sulle coste meridionali della Sicilia tira molto vento. Non sussistono dunque le condizioni ideali per uno sbarco: in realtà, poco dopo la mezzanotte, scatta l’allarme generale. Vengono notate navi nemiche a largo, a Licata e Porto Empedocle italiani ma anche tedeschi sparano verso il mare e provano ad impedire l’approdo dei mezzi americani. Le spiagge citate ad inizio articolo, sono in gran parte teatro dello sbarco: in poche ore viene conquistata Licata, i mezzi alleati sbarcano anche a Gela mentre tra Agrigento e Porto Empedocle, dove ci si aspetta il grosso dello sbarco, tutto appare più ridimensionato. Il 10 luglio, con l’ingresso degli americani a Licata, l’operazione Husky (così viene nominata in codice) ha il suo definitivo via libera.
La battaglia di Agrigento
Il 6 luglio scorso alcuni vecchi mezzi militari americani passano per le strade di Agrigento. Si tratta di una rievocazione proprio in vista del settantacinquesimo anniversario dello sbarco alleato. Ma in quel luglio del 1943 i carri ed i mezzi che iniziano a percorrere le intricate vie della provincia agrigentina sono reali, la battaglia è vera e non risparmia nulla e nessuno. Nella Sicilia orientale, il 10 luglio, sono sbarcati i britannici comandati da Montgomery, tra Licata e Gela gli americani agli ordini di Patton. Augusta e Siracusa cadono già il 12 luglio, la prima vera battaglia per un capoluogo di provincia si ha ad Agrigento.
Dal 10 luglio al 16 luglio americani ed italiani si contendono rispettivamente attacco e difesa alla città dei templi. La popolazione agrigentina ha consapevolezza di essere caduta nella morsa del conflitto, dopo tre anni di relativa calma, il 12 luglio 1943: in quel lunedì mattina, un bombardamento americano fa strage nel centro storico. Le bombe centrano il liceo classico, la basilica di San Francesco con annesso rifugio anti aereo, i quartieri di Santo Spirito, di San Girolamo e diverse zone del nucleo antico della città. Il bilancio ufficiale è di 196 morti, molti dei quali periti per asfissia all’interno di rifugi diventati trappole mortali, una strage forse rimasta poi in sordina negli anni successivi. Intanto, oltre a contare morti e dispersi, chi è sopravvissuto a quell’attacco dal cielo avverte giorno dopo giorno l’aumentare dei rumori dei colpi d’artiglieria.
La battaglia di Agrigento rivela l’impreparazione e l’inconsistenza dei mezzi italiani di fronte alle avanzate americane: uno dopo l’altro, gruppi e battaglioni vengono spazzati via tra Licata, Canicattì, Palma di Montechiaro, a fine mese lo stesso Patton afferma di contare almeno seimila vittime tra i soldati italiani. Ma non manca la resistenza: l’esercito regio si schiera lungo le linee del fiume Naro, poco ad est di Agrigento, e lì riesce per quattro giorni a bloccare gli americani. Si tratta dell’esempio più importante di strenua resistenza italiana nella prima settimana di battaglia in Sicilia. I progetti americani di prendere Agrigento in due giorni dunque svaniscono, con gli alleati costretti ad impiegare quasi una settimana in più prima di giungere all’obiettivo. Elemento decisivo della battaglia è la presa di Favara, che avviene il 14 luglio: da qui, gli americani iniziano a puntare il centro della città dei templi. L’assalto finale inizia nella notte tra il 15 ed il 16 luglio: gli alleati conquistano i quartieri del Quadrivio Spinasanta e di Montaperto e questo, a sua volta, consente loro di avanzare verso Porto Empedocle, la quale capitola nel primo pomeriggio del 16.
Agrigento è dunque oramai circondata ed assediata e questo permette, entro poche ore, la resa della città. Il primo capoluogo di provincia interessato dall’avanzata americana capitola sul finire di quel 16 luglio 1943. Ad annunciarlo è un telegramma inviato dalla divisione costiera 207 al XII corpo d’armata: “Dopo 7 giorni di strenui combattimenti, sotto l’incessante martellamento navale e terrestre, circondata da ogni parte, Agrigento cede alla preponderanza nemica al grido di “Viva l’Italia”. Il generale Francesco Zingales del XII corpo d’armata, risponde poco dopo: “Il XII Corpo d’Armata saluta gli eroi di Agrigento”. Ad una settimana da questi fatti, cade Palermo e pochi giorni dopo cade anche il governo Mussolini.
Da allora, da quei combattimenti oggi forse dimenticati ma i cui echi non appaiono poi così lontani, sono trascorsi 75 anni. Oggi quei luoghi, quelle spiagge, quelle campagne e quelle città di queste lande profonde della Sicilia appaiono baciate dal sole caratteristico delle estati dell’isola: la vita prosegue, tra famiglie e turisti in vacanza e tra cittadini che svolgono il proprio lavoro, nulla sembra richiamare e rievocare rumori e grida di battaglie che hanno cambiato il corso della storia.
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