Di Emanuel Pietrobon
Oltre 1500 moschee, più di 2mila tra scuole coraniche e centri culturali islamici edificati in tutto il mondo, e circa 138 milioni di copie del Corano distribuite gratuitamente in Nord America, Europa, Africa e Asia tra il 1982 ed il 2005: questi i numeri della prima, gigantesca campagna promozionale del wahhabismo svolta dall’Arabia Saudita sotto il regno di re Fahd. Una guerra culturale senza precedenti nella storia, di gran lunga superiore per livello qualitativo e quantitativo a quella attuata dall’Unione Sovietica fra il secondo dopoguerra e la caduta del muro di Berlino.
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Si stima che negli Stati Uniti e in Europa occidentale, l’Arabia Saudita tra il 1980 ed il 2010 abbia finanziato l’edificazione di circa 8 moschee e centri culturali su 10, svolgendo un ruolo essenziale nella proliferazione di letture ultraconservatrici ed estremiste dell’islam tra le comunità di musulmani espatriati. Non si tratta di semplice complottismo islamofobo o antisaudita, ma di conclusioni a cui sono giunti diversi governi, come quello francese e belga, e importanti think tank come Freedom House e la Henry Jackson Society. Ma che cos’è il wahhabismo e perché l’Arabia Saudita è così attivamente coinvolta nella sua diffusione mondiale?
Il wahhabismo è il credo religioso dominante in Arabia Saudita ed è spesso descritto come la versione più conservatrice, puritana ed antimoderna dell’islam; deve il suo nome a Muhammad ibn Abd al-Wahhab, un teologo arabo vissuto nel 1700, sostenitore della necessità di un ritorno all’epoca d’oro islamica per mezzo di una fede vissuta nel modo dei puri antenati. Diversi Saud, la famiglia reale da cui l’Arabia Saudita prende il nome, ed esponenti del clero nazionale, vantano una diretta discendenza da al-Wahhab, e sin dalla fondazione del regno hanno tentato di sfruttare il dominio esercitato sulla terra sacra dell’islam, sede delle due Sacre Moschee di Medina e La Mecca e luogo di pellegrinaggio da parte di milioni di musulmani provenienti da tutto il mondo, per accreditare il wahhabismo agli occhi della umma, nonostante sia considerato sostanzialmente eterodosso dalla maggior parte degli ulema e degli islamologi mondiali. Ma il wahhabismo non è sempre stato oggetto di una guerra culturale e le ragioni alla base dei tentativi di casa Saud di esportarlo in tutto il globo sono più geopolitiche che religiose, oltre che abbastanza recenti.
Tutto ha inizio nel 1964 con l’insediamento di Faisal bin Abdulaziz Al Saud al trono, uno spartiacque non solo per la storia saudita, ma anche per quella mondiale. Re Faisal, il riformatore conservatore, il potere dietro la corona sin dalla fine degli anni ’50, leader carismatico, abile diplomatico, ma soprattutto fervente religioso, fu l’autore di numerose iniziative quali la nascita dell’università islamica di Medina, ancora oggi interdetta ai non musulmani, della Lega Musulmana Mondiale e dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica, ancora oggi i principali organismi attivi nella promozione del dialogo tra le nazioni a maggioranza musulmana e nella diffusione dei valori islamici nel mondo.
Re Faisal fu anche l’autore della prima strategia geopolitica della storia saudita, guidato da sentimenti di ostilità nei confronti del sionismo, del nazionalismo arabo e del socialismo. Avviò l’Arabia Saudita in una guerra fredda con l’Egitto combattuta a colpi di finanziamenti a movimenti e partiti panislamisti per fronteggiare il dilagante nazionalismo arabo dai tratti socialisteggianti in Nord Africa e Medio Oriente. Ma Faisal è soprattutto ricordato per aver provocato la crisi energetica del 1973 con l’aiuto dei paesi OAPEC, una dura reazione al sostegno fornito ad Israele da parte dei paesi occidentali durante la guerra dello Yom Kippur. Sebbene Faisal non abbia potuto vivere abbastanza da vedere i risultati del network internazionale islamico da lui creato, perché ucciso da un membro di famiglia poco dopo la crisi energetica in quello che sembra essere stato un complotto ordito ai suoi danni da parte degli Stati Uniti come ritorsione per la sua eccessiva visibilità internazionale, la campagna di diffusione del wahhabismo promossa soprattutto dalla Lega Musulmana Mondiale è continuata senza sosta, soprattutto dopo un altro grande evento di portata storica: la rivoluzione iraniana del 1979.
L’Iran, sino ad allora un paese satellite sotto influenza angloamericana, si trasformò in una repubblica islamica basata su una rigida applicazione della shari’a in seguito ad una rivoluzione ultraconservatrice capeggiata dai seguaci di Ruhollah Khomeini, un carismatico leader religioso sciita. L’appello dei khomeinisti all’esportazione della rivoluzione ebbe grande risalto internazionale, soprattutto fra le petromonarchie del golfo persico intimorite dalla prospettiva di un’ondata di instabilità ai loro confini. Saddam Hussein, da poco insediatosi alla presidenza dell’Iraq, mosso dalle stesse paure per via della presenza di una folta comunità sciita nel paese, approfittò del disordine imperante nell’Iran post-rivoluzionario sferrando un attacco a sorpresa, sostenuto da cospicui aiuti in termini di armi e denaro dagli Stati Uniti e dalle petromonarchie.
Nonostante l’isolamento internazionale e le difficoltà a generare un ciclo economico stabile e positivo, l’Iran riuscì comunque a trovare i fondi necessari per tentare l’esportazione della rivoluzione, principalmente finanziando movimenti guerriglieri e partiti politici nei principali paesi della regione ospitanti considerevoli percentuali di sciiti, ossia Iraq, Bahrain, Libano e Yemen. La gigantesca macchina di propaganda messa in moto da re Fahd non è stata altro che la naturale risposta all’aggressiva espansione dello sciismo khomeinista nel mondo islamico, una religione politica antitetica al wahhabismo e quindi pericolosa per la legittimità di Riyadh agli occhi dell’umma.
La guerra sotterranea tra i due epicentri del mondo islamico si combatte per mezzo di guerre per procura, insurrezioni, colpi di stato, attentati, ma anche attraverso l’edificazione di moschee, scuole religiose e centri culturali nei quali vengono predicati sermoni più politici che religiosi.
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Wahhabismo e salafismo non sono problematici nella loro essenza, ma soltanto nella misura della strumentalizzazione politica che viene fatta di essi da terroristi e petromonarchie ignorando le conseguenze derivanti dall’indottrinamento di milioni di persone all’odio religioso e al ripudio verso la modernità in tutte le sue forme. I governi occidentali sembrano essersi accorti soltanto negli ultimi anni del collegamento tra radicalizzazione e predicazioni fondamentaliste nei luoghi di culto e dialogo finanziati dai sauditi o dai qatarioti, basiti dinanzi i numeri forniti dai servizi di sicurezza degli estremisti in circolazione nell’Unione Europea e dalle migliaia di cittadini, nati e cresciuti nel Vecchio Continente, arruolatisi tra le fila dell’autoproclamato Stato Islamico. Il Belgio rappresenta senza dubbio il caso più emblematico degli effetti sociali perversi prodotti da una diffusione sfrenata del wahhabismo e del salafismo. Il paese è una contraddizione in termini: sede delle principali istituzioni comunitarie e della legislazione tra le più progressiste e liberali del continente, ed allo stesso tempo un focolare di jihadismo paragonabile al Kosovo o ai paesi del Turkestan.
In effetti, dietro il gioco di parole dispregiativo Belgistan c’è più realtà che islamofobia di quanto possa sembrare. Il Belgio è infatti il paese comunitario con il più alto numero di foreign fighter pro capite secondo l’autorevole International Center for Counter-Terrorism: circa 520 su una popolazione di 11 milioni. Le ragioni che hanno trasformato il Belgio in un bacino di reclutamento a cielo aperto per la causa jihadista sono ancora da scoprire, a meno che uno non voglia accontentarsi delle classiche scusanti della mancata integrazione o della difficoltà nella mobilità sociale. Alcuni eventi offrono però degli spunti interessanti da cui iniziare una ricerca:
1) la Grande Moschea di Bruxelles, inaugurata nel 1978 con un affitto gratuito all’Arabia Saudita di 99 anni, è stata recentemente tolta dal controllo saudita perché definita da una commissione parlamentare d’inchiesta come una minaccia per lo stato di diritto e luogo di predicazioni salafite-wahhabite estremamente violente;
2) l’Arabia Saudita devolve annualmente circa un milione di euro alla manutenzione e gestione delle moschee belghe, tra le quali alcune site nel quartiere-ghetto di Mollenbeek;
3) la nolenza delle autorità a perseguire e sciogliere movimenti come Sharia4Belgium, ufficialmente autodissoltosi per problemi interni, e islam, un partito islamista attivo dal 2012 ed avente come programma elettorale l’instaurazione della shari’a nel paese nel lungo termine.
Belgio a parte, in tutta Europa stanno sorgendo movimenti con richiami palesi alla shari’a, sorti nel sottobosco salafita e poi cresciuti sino ad ottenere un seguito popolare tale da condurre campagne elettorali, gestire centri culturali, costruire relazioni transnazionali con enti o stati, approfittando della totale indifferenza delle autorità. Mentre le istituzioni comunitarie e i paesi membri non sembrano realmente interessati ad affrontare il problema della crescente radicalizzazione, a vedere i legami tra certe nazioni e diffusione di visioni fondamentaliste ed antioccidentali e a realizzare un islam europeo, l’ondata salafita-wahhabita avanza inarrestabile.
Fonte e articolo completo: http://www.lintellettualedissidente.it/esteri-3/religione-wahhabismo-islam-europa/
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