Di Mauro Indelicato
‘A 4447’: è una sigla che, a prima vista, potrebbe anche non dire nulla ma che in realtà ha svelato alcuni dei più importanti retroscena di uno dei conflitti più cruenti degli ultimi anni, ossia quello dello Yemen. Questa sigla è stata ritrovata nei frammenti di diverse bombe cadute nel paese arabo in questi due anni di guerra; sono ordigni sganciati dai caccia sauditi: questa scritta è stata trovata, ad esempio, tra i detriti causati dallo scoppio di una bomba lanciata dai militari della famiglia Saud in pieno centro a Sana’a, oppure ancora a Der al Hajari l’8 ottobre 2016, in cui un bombardamento ha ucciso sei civili, di cui quattro bambini. La sigla A 4447 altro non è che un numero di matricola il quale indica la provenienza dell’ordigno; la lettera iniziale e le quattro cifre successive dimostrano come la produzione di queste bombe sia della tedesca RWM, la cui sede è però in Italia e precisamente in provincia di Brescia mentre la fabbrica, da dove escono tali armi, è nel cuore della Sardegna e precisamente nella cittadina di Domusnovas, nella provincia che ha Carbonia come capoluogo. In parole povere, gran parte degli ordigni lanciati dai sauditi sulle città yemenite sono di fabbricazione italiana.
L’inchiesta del New York Times
Nei giorni scorsi il quotidiano newyorkese più famoso ha pubblicato nel suo sito un reportage video; obiettivo dell’inchiesta è quello di svelare il tragitto che, dall’Italia, permette il trasporto in Arabia Saudita di migliaia di bombe destinate a caricare quei caccia pronti a sganciare il proprio carico di morte sulle città yemenite. Nel video viene seguito, in particolare, il tragitto della nave cargo ‘Bahri Jeddah’ battente bandiera saudita; salpata dal porto di Cagliari nello scorso mese di giugno, dopo qualche settimana la nave viene fotografata nel porto saudita di Jeddah: a bordo vi è un carico che, seguito quando il contenuto viaggiava ancora sulle strade sarde, veniva indicato come ‘pericoloso’ e scortato dunque anche dai Carabinieri. Secondo il NYT, sulla Bahri Jeddah vi erano gli ordigni con matricola A 4447 prodotti a Domusnovas presso lo stabilimento RMW Italia, società appartenente alla multinazionale tedesca Rheinmetall.
Da Jeddah poi, il carico del cargo saudita salpato dalla Sardegna viene quindi trasportato a Taif, lì dove vi è la sede di una delle basi della Royal Saudi Armed Forces; è da qui poi che il materiale viene assemblato e caricato sugli aerei militari di Riyadh, i quali poi entrano in azione nello Yemen. Dallo stabilimento delle campagne sarde quindi, le bombe arrivano a cadere nelle città del paese arabo alle prese, dal 2015, con la guerra con la quale i Saud sperava di battere gli sciiti Houti nel giro di poco tempo; in realtà il conflitto è in una fase di stallo con nessuna delle parti in causa che riesce a prevalere sull’altra e questo, tra le altre cose, sta portando al peggioramento della già precaria situazione umanitaria, con milioni di persone impossibilitate ad essere raggiunte da medicine e generi di prima necessità.
Un commercio che non conosce crisi
Ma il NYT non è il primo a documentare la vendita di armi italiane all’Arabia Saudita; già da anni associazioni e politici locali lamentano la complicità delle istituzioni nel dramma che sta vivendo lo Yemen, per via della produzione di migliaia di ordigni nella sede sarda della RMW Italia. Tra i primi a denunciare il fatto, è stato l’ex presidente della Regione Sardegna Mauro Pili, attualmente deputato del gruppo regionalista ‘Unidos’ ma eletto nel 2013 nelle liste del centro – destra; in più occasioni Pili ha documentato con filmati e foto la partenza, dall’aeroporto cagliaritano di Elmas, di bombe ed ordigni prodotti dalla RMW Italia a Domusnovas. Di recente, proprio Pili in un video ha mostrato la Bahri Jeddah mentre era ancorata al porto di Cagliari; in Parlamento, a fargli eco, è stato il deputato sardo grillino Roberto Cotti, il quale in commissione ha chiesto la legittimità del provvedimento che ha concesso l’autorizzazione alla vendita di armi ai sauditi. Anche numerose associazioni locali, nei mesi scorsi, si sono mobilitate per chiedere la fine della produzione delle armi nelle campagne di Domusnovas; diverse, in tal senso, sono state le manifestazioni operate all’ingresso dello stabilimento della RMW.
A livello giornalistico, il primo a mettere in risalto il ruolo del nostro paese nella guerra nello Yemen, è stato l’irlandese Malachy Brown di Reported.ly; nel suo reportage, tradotto in Italia da IlPost nel giugno 2015, il giornalista ha certificato il trasporto di Mk82 ed Mk84 prodotte dalla RMW dal porto di Genova a quello di Jeddah. Questo primo passaggio di armi dal nostro paese al porto saudita, è avvenuto il 12 maggio 2015 grazie ad una nave della compagnia ‘Jolly Cobalto’; in seguito, sono stati effettuati diversi volti da Cagliari fino all’aeroporto militare di Taiff, spesso di notte e documentati in parte dal sopra citato deputato Mauro Pili. Non sono mancati anche altri trasporti via mare, tanto dal porto cagliaritano quanto da quello di Olbia; spulciando i dati delle esportazioni delle armi italiane del 2016, è emerso come la RMW è la terza società con sede in Italia ad avere maggiori licenze dietro soltanto a Leonardo (ex Finmeccanica) e Ge Avio.
Il fatturato per la società che opera in Sardegna è stato di quasi cinquecento milioni di Euro, pari a poco più del 3% del valore totale delle esportazioni di armi italiane (Leonardo, da sola, assorbe una percentuale pari all’80%); gli affari dati dalla vendita di bombe all’Arabia Saudita sembrano quindi essere molto redditizi per la società italo – tedesca: testimonianza ne è il fatto che, nel mese di novembre 2016, la stessa RMW ha chiesto il permesso per ampliare il proprio stabilimento di Domusnovas, tra le polemiche delle associazioni e dei politici locali.
La vendita ai sauditi è legale?
La domanda dunque sorge spontanea: il commercio che dalla Sardegna porta le bombe della morte nello Yemen è conforme alle leggi italiane e comunitarie? Al di là dell’aspetto etico, certamente importante, le denunzie dei deputati sopra citati e delle locali associazioni ha una base giuridica? Se, dal canto suo, il Ministro della Difesa Roberta Pinotti appare tranquilla nel rispondere alla domanda di un cronista nel reportage del NYT, in cui la titolare del Ministero ha affermato che ‘Tutto viene fatto nel rispetto delle leggi’, da più parti sia in Italia che all’estero arrivano non poche perplessità. A favore di chi mette in discussione la legalità delle operazioni sopra descritte, vi è il richiamo alla legge 185/1990 che, in tema di controllo dell’esportazione dei materiali di armamento, cita testualmente come ‘L’esportazione ed il transito dei materiali di armamento, nonché la cessione delle relative licenze di produzione, sono vietati quando siano in contrasto con la Costituzione […] ed è altresì vietato (n.dr.) il transito, il trasferimento, intracomunitario e l’intermediazione di materiali di armamento verso i Paesi in Stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 delle Carta delle Nazioni Unite’.
Ma non solo: anche spulciando il trattato sugli armamenti dell’UE la legalità del trasporto di armi in un paese in guerra, come l’Arabia Saudita, sarebbe contro le regole; pur tuttavia, il commercio prosegue senza interruzione e, soprattutto, senza conoscere la ben che minima crisi. L’Italia, di fatto, al di là del discorso meramente incentrato sulla legalità delle operazioni, è complice dei bombardamenti civili effettuati dai sauditi nello Yemen.
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