Di Francesco Grignetti
Il primo impatto è da urlo: lungo il corso, tre ragazzotti su un motorino scalcagnato, rigorosamente senza targa, e senza casco, fanno lo slalom tra le auto. E poi i soliti vecchietti, seduti sulle panchine in ombra. Infine, e questa è la nota nuova, a trotterellare lungo la strada ci sono tantissimi giovani immigrati, per lo più dell’Africa nera. Benvenuti a Isola di Capo Rizzuto. «Comune del sole e dell’accoglienza», recita il cartellone all’ingresso del paese, appena usciti dalla statale ionica. Un paese dove, secondo l’ultima inchiesta della magistratura, s’era formata un’immonda alleanza tra il parroco, il sindaco, il volontariato e la ’ndrangheta. Tutti assieme voluttuosamente ad abbuffarsi con i soldi che lo Stato spende per accogliere i richiedenti asilo, trasformando la cassa del Centro nel bancomat (la «bacinella») per la cosca.
Il Centro per richiedenti asilo è un grande spazio recintato, con i soldati al cancello, poco fuori dal paese, dirimpetto a un aeroporto che esiste solo sulla carta e sulle note spese di qualche ente locale. Dentro, ci sono appartamentini prefabbricati e una grande sala per la mensa. Millecinquecento posti per migranti e quasi mai un letto vuoto. L’ingresso è sbarrato agli estranei. Ogni tanto si sente una voce dagli altoparlanti. È come nei camping, ma qui chiamano qualcuno alla visita medica, oppure a un colloquio, o perché lo trasferiscono da qualche altra parte.
Ecco, il cartello dice bene: Isola di Capo Rizzuto è uno di quei paesi che hanno scoperto l’industria dell’accoglienza. Al popolo dei gommoni serve tutto, dai pasti alla biancheria pulita, all’assistenza sanitaria, ai vestiti. E qui a gestire le cose c’è una Misericordia, benemerita associazione di volontariato che in Italia esiste dal Medioevo, ma che a Isola di Capo Rizzuto pare avere assunto le vesti di un’arcigna ’ndrina.
Nel 2014, il Centro è costato 14 milioni di euro. Quasi 100 milioni in otto anni. E su questi soldi si sono buttati in tanti. Il principale accusato si chiama Leonardo Sacco ed è il gestore da una decina di anni. La «sua» Misericordia nel frattempo è diventata il motore economico del paese: non soltanto fa lavorare 300 famiglie per i servizi accessori al Centro, ma gestisce il poliambulatorio, il centro anziani, un ex cinema che stanno trasformando in bar-ristorante, la polisportiva annessa al santuario della Madonna greca.
La Misericordia era il braccio esecutivo del parroco, don Edoardo Scordio, il motore immobile che da quarant’anni tutto può e tutto muove a Isola di Capo Rizzuto. Bene lo sa l’ex sindaco, Carolina Girasole, schiantata per essere entrata in conflitto con don Edoardo quella volta che osò affidare alcune terre confiscate al clan Arena a una cooperativa di «Libera» e non ai soliti noti. Lei si mise di traverso. Ed è finita che fu arrestata e infangata con l’accusa di voto di scambio, salvo essere assolta al processo (ma ora pende l’appello).
Gli Arena, poi, sono i potentissimi capimafia. Se si guarda agli spelacchiati prati del Centro di accoglienza, tutt’intorno si notano soltanto le immense pale di un parco eolico che loro, quelli del clan, avevano creato sui propri terreni e certo non per spirito di ecologismo. A ben guardare, poi, quei terreni sono coltivati con pregiati finocchi, melanzane, pomodori. È una terra ricca, quella di Isola Capo Rizzuto. Ma state sicuri che a rompersi la schiena c’è qualche immigrato.
Loro, ultimo gradino della società, entrano ed escono dal Centro ad occhi bassi. Racconta Djabati Alassane, 23 anni, della Costa d’Avorio, in un francese stentato: «Nel mio paese, lavoravo come meccanico. Ora sono qui dal 24 dicembre. Non faccio nulla, non c’è nulla da fare: mangio e dormo, e poi di nuovo mangio. E poi dormo». Kibron Tsesuly, 29 anni, eritreo, parla inglese: «Non c’è lavoro per noi, io ho chiesto asilo politico e ho indicato come possibili destinazioni la Svizzera, la Germania e l’Olanda». La sua storia è come quella di mille altri. «Ho pagato in tutto 3 mila e quattrocento dollari per passare dall’Eritrea all’Etiopia, poi al Sudan, ho attraversato il Sahara, ho aspettato 4 mesi in Libia e finalmente mi hanno fatto imbarcare su una barca piccolissima di legno. Come mi trovo? Bene. Il cibo italiano è buono, mi piace. Mangio molto pollo».
È su questi disgraziati che la ’ndrangheta faceva affari, spacciando pasti che non esistevano o comunque erano di qualità infima. E chi doveva controllare, era complice. Anche il parroco? «Noi non ci crediamo», dicono risolute Elisabetta, Pina e le altre signore del paese, all’entrata del Duomo. Al pomeriggio si sono riunite in fretta per pregare. «Lo facciamo per don Edoardo».
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