Di Michele Cotugno Depalma
Il 9 maggio non è una data come le altre per la storia del Belpaese. E non può esserlo, visto che è il dì della morte di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, ritrovato morto nel bagagliaio (indimenticabile è la telefonata del brigatista Valerio Morucci al professor Franco Tritto quella mattina) di una Renault 4 rossa nella centralissima via Michelangelo Caetani, esattamente 55 giorni dopo essere stato sequestrato in via Mario Fani, con tanto di massacro dei 5 uomini della scorta.
Correva l’anno 1978, 39 anni fa.
Ma oggi non parleremo di questo, perché quel giorno, qualche centinaio di chilometri più a sud, in un piccolo paese della Sicilia, Cinisi, un ragazzo 30enne viene fatto a pezzi sui binari della ferrovia. Qualcuno lo ha messo sulle rotaie quando era già stordito, ne ha adagiato il corpo su una carica di tritolo e ha fatto brillare l´esplosivo. Poi, per 23 anni, qualcun altro (forse “amico” di quel qualcuno su citato) ha provato a seppellirne il ricordo sotto una montagna di falsi e calunnie per una ricostruzione di comodo che lo voleva suicida o saltato per aria maneggiando l´esplosivo.
Già , perché purtroppo questo ragazzo ha avuto la “sfortuna” di morire nel giorno sbagliato e nel periodo meno opportuno, quando in Italia i giornali sbattevano in prima pagina le uccisioni eccellenti delle Brigate rosse, e non poteva esserci spazio per altri morti ammazzati.
Lui è Giuseppe (Peppino) Impastato, un giovane ucciso dalla mafia – ma lo si certificherà soltanto anni dopo – per una colpa molto semplice: aver tentato di alzare la testa in un paesino muto, sordo e cieco dinanzi al potere e al regno di Gaetano Badalamenti, all’epoca uno dei boss di Cosa Nostra e soprattutto amico di Luigi, il papà di Peppino. E che abitava a un battito di ciglia, 100 passi, dalla sua abitazione.
Già , perché quello di Peppino è stato un destino segnato. Lui la mafia l’aveva in casa, perché il marito di sua zia, Cesare Manzella, era un capo di prima grandezza nel firmamento delle coppole, ma lui, militante di una sinistra che già allora si componeva e si divideva, creando una galassia di sigle, partiti e movimenti, cercò di sottrarsi al fato. E a quella che lui chiamava “montagna di merda”. La mafia, appunto.
E ha tentato di farlo attraverso una cosa semplice ma al tempo stesso complicata: parlare. Denunciare il più corrotto dei sistemi. Far capire alla gente di Cinisi e alla Sicilia intera quello che non andava, e che stava accadendo sotto i loro occhi. Sì, perché Giuseppe Impastato ha fatto sentire la propria voce dai palchi improvvisati, dai microfoni di Radio Aut, dalle colonne di “L’Idea socialista”, un giornale dalla vita molto breve.
Ha criticato il progetto di ampliamento dell’aeroporto di Comiso, a cinque chilometri da Cinisi, perché lo vedeva come un grande affare per la mafia (è la stessa cosa la pensava anche il comunista Pio La Torre, a cui l’aeroporto oggi è intitolato). L’America dei cugini d’oltreoceano sempre più vicina, la droga a fiumi e la speculazione dei signori del cemento. Ha fatto nomi e cognomi di mafiosi e politici che andavano a braccetto senza la vergogna di farsi fotografare assieme.
Era troppo, e andava punito. E la sua fine, a pochi giorni dalle elezioni comunali di Cinisi che lo vedevano candidato come consigliere comunale, ha impresso una svolta decisiva nella vita della mamma, Felicia Bartolotta, di suo fratello Giovanni, di sua cognata Felicetta. I primi a capire che la verità non era quella di comodo, ma quella che sapevano tutti ma su cui era meglio girare la testa dall’altra parte.
Diventata ufficiale soltanto 23 anni dopo, nel 2002, allorché Tano Badalamenti, è stato condannato all’ergastolo per quel delitto, mentre l’anno prima, Vito Palazzolo, ha ricevuto la condanna a trent’anni di carcere come corresponsabile dell’assassinio. E anche lui amico della famiglia di Peppino.
E quest’anno, in occasione del 39esimo anniversario di quel 9 maggio, a Cinisi è stato riaperto dopo due anni il casolare dove Giuseppe è stato ucciso, inserito insieme alla Casa Museo Peppino e Felicia Impastato, nei luoghi dell’identità e della memoria come “I Luoghi di Peppino Impastato”.
Ma al di là di tutto, resta forte il suo insegnamento. La mafia uccide. Ma anche il silenzio e l’ignoranza.
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