Di Laura Cesaretti
A pochi giorni dalla Direzione di lunedì, la tensione interna al Pd sale. E per la prima volta, dalla maggioranza che finora ha sostenuto Matteo Renzi, arriva un avvertimento al segretario: non è affatto detto che anche se si va ad elezioni anticipate il candidato premier del Pd sia tu.
Il messaggio è partito ieri sera, dopo una concitata serie di riunioni: all'improvviso, nella Montecitorio semideserta del dopocena, si sono materializzati ministri e capicorrente di peso, da Dario Franceschini ad Andrea Orlando a Maurizio Martina a Gianni Cuperlo. Obiettivo comune: disinnescare quello che qualcuno definisce «il ricatto» di Renzi (premio di maggioranza alla coalizione, ma solo in cambio di elezioni a giugno) e far capire al segretario che, se non si adatta a concordare la linea e ad ascoltare i desiderata del corpaccione del partito, la maggioranza interna si può ribaltare e nel Pd può nascere un'alternativa alla sua leadership. Alternativa che ha il nome del ministro della Giustizia, quell'Orlando appena «investito» da Ugo Sposetti (e dietro le quinte da Giorgio Napolitano), che gli ha conferito l'eredità anche materiale, un patrimonio considerevole come è noto del vecchio Pci. Il felpato tentativo di golpe interno è maturato al termine di una giornata convulsa di riunioni e conciliaboli, con i parlamentari del Pd in rivolta contro Renzi per l'annullamento dell'assemblea degli eletti prevista per oggi. Un confronto interno rinviato dal segretario alla Direzione di lunedì.
Contemporaneamente, dal fronte renziano arrivavano messaggi tutt'altro che concilianti: la legge elettorale? «Si ricomincia da zero», altro che premio di coalizione. Non si vota a giugno? «Bene, allora anticipiamo il congresso e ci misuriamo sulle cose da fare». Una cosa è certa: «Finché sarò segretario io, il nostro Pd non farà la fine di quello di Bersani durante il governo Monti»: quando si tratterà di preparare la prossima legge di Stabilità , il partito renziano farà pesare il proprio ruolo di maggioranza. Nessuna manovra «lacrime e sangue» per venire incontro ai desiderata dei «burocrati di Bruxelles»: una politica economica «recessiva», oggi, sarebbe esiziale per la debole ripresa del paese. Serve una manovra «espansiva», e la si dovrà fare: «Anche a costo di togliere la fiducia al governo, che si regge sui nostri voti».
Se le elezioni davvero si allontanano (lo stesso Luca Lotti spiegava ai renziani che le chance di voto anticipato ad oggi sono «due su dieci»), Renzi non ha alcuna intenzione di mollare il campo al partitone della «stabilità », che vede le grandi manovre a favore del «premio di coalizione» tra pezzi di Pd, Franceschini e Orlando in testa, in sintonia con gli emissari di Berlusconi come Gianni. Se si decide di andare avanti, invece di cogliere l'occasione di trascinare al voto un Beppe Grillo terrorizzato dai contraccolpi del disastro Raggi, allora «si ridiscute tutto: noi andiamo in aula con la nostra proposta, il Mattarellum, e si vede chi ha i voti per cosa», è l'avvertimento di Renzi. Peraltro, sottolineano i renziani, anche i sondaggi della sondaggista più amata dal Cavaliere, Alessandra Ghisleri, evidenziano una flessione dei Cinque Stelle. Ma se non si vota a giugno, dice il leader, allora si fa il congresso del Pd, con relative primarie: che gli avversari siano Speranza, Rossi o Emiliano, i sondaggi dicono che Renzi stravincerebbe comunque, con percentuali intorno al 70%. «Ma anche se vincesse, col proporzionale non sarebbe lui il candidato premier», è la risposta dei ribelli.
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