Di Alessandra Benignetti
“Garanzie per la sicurezza e un’azione immediata per la ricostruzione dei villaggi liberati”, queste sono le principali sfide che, dopo la liberazione dei villaggi cristiani della piana di Ninive e mentre prosegue l’avanzata dei peshmerga curdi e dell’esercito iracheno su Mosul, aspettano la comunità cristiana dell’Iraq. A farsi portavoce degli oltre 100mila cristiani fuggiti dalla piana di Ninive nell’estate del 2014, dopo l’invasione dei miliziani dell’Isis, è l’arcivescovo caldeo di Erbil, che oggi ha parlato ad una conferenza stampa organizzata dalla fondazione di diritto pontificio Aiuto alla Chiesa che Soffre, nella sede romana della Stampa Estera.
Chiese distrutte e case bruciate dai jihadisti
Mentre continua l’avanzata, quartiere per quartiere, sulla roccaforte del Califfato in Iraq, sono molti, infatti, gli interrogativi sulle sorti della comunità cristiana irachena, una volta che l’Isis sarà sconfitto. I villaggi che un tempo ospitavano le comunità cristiane sono distrutti, alcuni quasi completamente, come Batnaya, dove le famiglie cristiane erano 900.
“Quando abbiamo visitato questi villaggi abbiamo visto l’odio dei jihadisti contro i cristiani, nelle scritte sui muri fatte dentro le chiese, completamente ditrutte o nelle abitazioni bruciate”, spiega monsignor Warda. Ora, dopo la liberazione dei villaggi della piana di Ninive, la sfida principale per i cristiani è quella della sicurezza. Molti di loro, infatti, sono stati traditi e consegnati all’Isis dai vicini di casa musulmani. “Chi garantirà la sicurezza? Il governo, l’esercito iracheno, i peshmerga? Noi incoraggiamo i giovani cristiani ad entrare nell’esercito iracheno per contribuire ad assicurare la sicurezza nei villaggi liberati”, spiega l’arcivescovo caldeo di Erbil, “c’è poi la questione della ricostruzione dei villaggi distrutti e del supporto ai rifugiati cristiani ad Erbil”.
“La scorsa settimana abbiamo formato una nuova commissione della Chiesa irachena per la popolazione e quando abbiamo chiesto alla nostra comunità se volessero tornare nelle loro case, loro hanno risposto di sì, ma che vogliono garanzie sulla ricostruzione delle loro case e sulla loro sicurezza, affinché ciò che è già successo non si ripeta” ha spiegato monsignor Warda. Ricostruire le case sarà prioritario rispetto alla ricostruzione delle chiese, ma, assicura l’arcivescovo, anche queste saranno riedificate. “Ho provato rabbia quando ho visto la distruzione nelle chiese dove abbiamo celebrato Messe e matrimoni, ma abbiamo chiesto alla popolazione di Karemlash e Batnaya di portarci due pietre degli altari delle loro chiese, per metterle nell’altare della nuova cattedrale che stiamo costruendo, per ricordare quello che è successo e per far sì che questo non accada più”, ha detto il presule.
“Anch’io bloccato dal divieto di Trump”
“Il Medio Oriente ha già sofferto molto negli ultimi anni, siamo stanchi e le vittime della violenza settaria nel Paese sono moltissime, per cui se il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump ha il desiderio di contribuire con la sua forza per fermare l’Isis, ben venga un suo intervento, gliene saremo grati”, ha detto, poi, il monsignore commentando le ultime decisioni del presidente degli Stati Uniti. E sul divieto d’ingresso negli Usa, deciso da Trump, per i cittadini provenienti da sette Paesi a maggioranza musulmana, tra cui l’Iraq, monsignor Warda confessa di essere stato lui stesso vittima del provvedimento. “Avevo progettato di andare negli Stati Uniti questa settimana, ma sono stato costretto a cancellare tutto, sono stato bloccato, bloccano tutti, musulmani e cristiani”, ha detto l’arcivescovo. “Gli Stati Uniti hanno il diritto di stabilire cosa è meglio per il proprio Paese, e il loro modo di pensare è corretto, ma spero che questo diritto non crei ulteriore conflittualità”, ha poi aggiunto, “lui ha detto che farà una revisione di questo provvedimento tra 90 giorni e noi speriamo che possa rivederlo per assumere criteri più precisi per evitare l’ingresso di gente pericolosa, senza ostacolare l’ingresso di innocenti”. “Abbiamo più di 100mila cristiani che aspettano nei campi profughi in Turchia, Libano e Giordania, che non vogliono tornare a casa, e questa decisione dell’amministrazione americana va a loro discapito perché è difficile distinguere dai nomi chi è cristiano e chi è musulmano”, ha continuato l’arcivescovo.
Un piano Marshall per far tornare a casa i cristiani iracheni
“I cristiani e gli yazidi non hanno mai partecipato alle violenze settarie ma sono sempre stati vittime di queste violenze, sin dal 2003”, ha detto, infine, monsignor Warda, “e speriamo che la violenza finisca e che lasci spazio al dialogo e alla convivenza che, in Iraq, dura da 1400 anni”. “Il dialogo tra i vari gruppi è stato molto danneggiato ma speriamo che si possa tornare all’epoca d’oro della convivenza”, ha concluso l’arcivescovo, “quando verrà sconfitto l’Isis, avremo una grande opportunità per ricostruire l’Iraq, perché l’Isis ha distrutto la vita di moltissime persone, senza fare distinzioni: ora è tempo di ricostruire l’Iraq imparando dalla storia”. “Serve un nuovo piano Marshall che permetta il rientro dei cristiani nelle zone da cui sono stati cacciati a colpi di bombe e di violenze”, ha detto il direttore di Acs-Italia, Alessandro Monteduro, “le organizzazioni umanitarie, non solo cattoliche, il governo iracheno e la comunità internazionale devono sedersi attorno ad un tavolo per elaborare una strategia che consenta a cristiani e yazidi di tornare nelle loro case”. I cristiani che vogliono tornare nei villaggi devastati dalla furia del Califfato, secondo Acs-Italia, sono il 60% dei circa 100mila che hanno dovuto lasciare la piana di Ninive. E per 5mila famiglie cristiane, Acs sta pagando l’affitto ad Erbil, per garantire loro condizioni di vita dignitose. Ma oltre alla casa, spiega Monteduro, “va dato loro un lavoro e soprattutto vanno garantite condizioni di sicurezza per poter rientrare nelle loro case”. Dove li aspetta la sfida più grande: quella di ricostruire la convivenza pacifica con i vicini musulmani.
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