Di Fulvio Scaglione
Ecco una piccola storia di ordinario Medio Oriente che di sicuro non avrà l’attenzione che merita. Il Parlamento del Bahrain (il cui vero nome sarebbe Consiglio dei Rappresentanti) ha approvato, con 31 voti contro 1, una legge di modifica costituzionale presentata in prima bozza solo 16 giorni fa. Il risultato della modifica apportata all’articolo 105b della Costituzione (a sua volta approvata solo nel 2000) è questo: d’ora in poi le corti militari potranno processare i civili accusati di “nuocere al pubblico interesse” o sospettati di “terrorismo”, reato che nel Paese ha una definizione larghissima, quasi coincidente con la pura opposizione politica. La legge ora passerà all’esame della Shura, il consiglio politico-religioso, con membri nominati dal re, che non mancherà di mettere il proprio timbro.
Insomma: il Bahrain ha introdotto la legge marziale. Questo accade in un Paese dove, dal 2011, la giustizia viene amministrata secondo le norme introdotte dallo Stato di salvezza nazionale che persino secondo la Commissione indipendente d’inchiesta insediata dallo stesso re, ha portato “alla sospensione dei principi fondamentali per un equo processo, a cominciare dal diritto all’assistenza legale e dall’inammissibilità delle testimonianze estorte con la violenza”. Dal 2011 a oggi, almeno 300 intellettuali, attivisti per i diritti umani e oppositori sono stati condannati a pene oscillanti tra i cinque anni di galera e l’ergastolo, quando non alla morte, in base ai protocolli dello Stato di salvezza nazionale. Che a quanto pare non bastava: ora saranno i militari a processare i civili.
Perché tutto parte dal 2011? Perché in quell’anno, come Tunisia, Egitto, Siria e Marocco, e come due anni prima l’Iran, anche il Bahrain ebbe la sua Primavera. Inevitabile, peraltro, in un Paese dove gli sciiti sono maggioranza relativa ma sono schiacciati da una monarchia autoritaria sunnita, quella degli Al Khalifa. Dove i lavoratori stranieri, sfruttati e sottopagati, formano il 50% dei quasi 1,5 milioni di abitanti. Dove il petrolio tiene in piedi tutto a condizione che non si parli di diritti civili.
Per stroncare la protesta, che chiedeva solo un po’ di democrazia, il re del Bahrain chiese l’aiuto dell’Arabia Saudita che non si fece pregare: mandò l’esercito con i carri armati, ammazzò e imprigionò un bel po’ di persone e poi si ritirò, soddisfatta del lavoro compiuto. Lasciando ovviamente allo Stato di salvezza nazionale il compito di perfezionare la repressione.
Uno si direbbe: appassionati come sono all’idea di democratizzare il mondo, i Paesi dell’Occidente perbene avranno fatto fuoco e fiamme. In fondo, che differenza c’è tra Al Khalifa e, si fa per dire, un qualunque Al Sisi o Ahmadinejad? Questo re che fa sparare sui dimostranti, per di più da un esercito straniero, sarà stato ovviamente messo all’indice. E invece no, la differenza a quanto pare c’è è nessuno si è sognato di criticare Al Khalifa, anzi. Barack Obama ha sorriso benevolo, il Regno Unito ha applaudito (Londra è uno dei quattro Paesi europei che hanno un’ambasciata nella capitale Manama) e nel 2012 ha stretto col Bahrain un accordo per la collaborazione tra i rispettivi servizi segreti e l’addestramento militare. Cosa che, nello stesso 2012, in termini appena più blandi, ha fatto anche l’Italia.
Non solo. Nel 2014, quando la casa reale ha organizzato la prima elezione del Parlamento-farsa, tutti hanno gioito e hanno detto “che bello che bello!”. Proprio il Parlamento che adesso si affretta a certificare la trasformazione del Paese da una dittatura e una dittatura clerico-militare.
Agli arabi del Golfo Persico, comunque, non manca il senso dell’umorismo: così Mansour al-Mansour, detto “il macellaio”, il giudice militare del Bahrain che ha gestito gran parte dei processi contro gli oppositori sulla base dello Stato di salvezza nazionale e che ha firmato almeno cinque condanne a morte, è stato scelto dall’Arabia Saudita quale presidente della commissione che dovrebbe indagare, per conto dei sauditi, sui crimini di guerra commessi dai sauditi stessi nella guerra in Yemen contro i ribelli Houthi. Insomma, questi petromonarchi ci prendono pure per i fondelli. Però hanno ragione: ce lo meritiamo.
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