Dalla guerra che non fa notizia nello Yemen alla carneficina nel Sud Sudan fino all’Afghanistan, la Somalia e il Donbass, nel cuore dell’Europa, non sono pochi i conflitti che abbiamo volutamente dimenticato. Un silenzio tombale dettato da motivazioni politiche, sdegno a senso unico in nome di un falso buonismo o semplice disinteresse.
LO YEMEN NON FA NOTIZIA
La pietà dell’Occidente, che si riflette su giornaloni e tv, talvolta è spudoratamente a senso unico. La tragedia di Aleppo riaffiora sempre in prima pagina, ma la feroce guerra dei sauditi nello Yemen non fa notizia. Dal marzo dello scorso anno, con l’inizio della campagna saudita contro i ribelli Houti spalleggiati dall’Iran, sono morti 12mila yemeniti. Gli sfollati sono più di tre milioni e metà della popolazione sopravvive grazie agli aiuti umanitari. La guerra censurata nello Yemen è un fronte dello scontro più ampio fra gli sciiti filo iraniani e i sunniti sponsorizzati dalla monarchia di Riad. Solo le Ong, come Medici senza frontiere, denunciano i crimini di ambo le parti nel disinteresse generale. Lo Yemen non vale i fiumi di lacrime da coccodrillo versate per la Siria nonostante vengano colpiti in egual maniera ospedali e funerali; dei 500 feriti curati solo in un mese a Taiz il 23% erano donne e bambini. Anche se la guerra è volutamente dimenticata, l’importanza strategica dello Yemen non sfugge ad Al Qaida e allo Stato islamico, che si contendono il primato di attacchi kamikaze.
SOMALIA, CAOS DIMENTICATO
Il 29 dicembre, la Somalia dovrebbe avere un presidente, dopo tre rinvii e decadi di guerra civile e anarchia. A patto che gli Al Shabab, i talebani del Corno d’Africa, non lo facciano saltare subito per aria. Nelle ultime settimane i loro «martiri» hanno colpito ripetutamente, nel cuore di Mogadiscio, al volante di macchine minate. L’attacco suicida più sanguinoso è avvenuto all’ingresso del porto con un furgone bomba che ha ammazzato 29 civili e ferito cinquanta persone. Nessuno ne ha parlato nonostante le vittime siano quasi tre volte superiori alla strage del mercatino di Natale a Berlino. Nell’aeroporto della capitale somala hanno la loro base 110 paracadutisti italiani al comando del generale Maurizio Morena. L’Italia guida la missione di addestramento europea dello scassato esercito somalo, ma anche l’impegno nazionale interessa poco.
Pure la guerra dei trecento uomini dei corpi speciali americani con l’appoggio di droni e caccia bombardieri viene combattuta in silenzio. Gli specialisti del Navy Seal team 6 affiancano le truppe dell’Unione africana e quelle somale nella caccia ai terroristi. Quest’anno le operazioni Usa sono aumentate a 5-6 raid al mese. La minaccia è diventata duplice: da una parte il grosso degli Al Shabab legati ad Al Qaida a dall’altra una fetta impazzita che ha giurato fedeltà al Califfato. I 21mila soldati dell’Unione africana avrebbero bisogno del doppio degli uomini per spazzare via definitivamente i militanti islamici annidati soprattutto sulle coste. Nel nord, le forze della regione semi autonoma del Puntland hanno scalzato le bandiere nere dalla città portuale di Qandala. Però il loro capo, Abdiqadir Mumin, non si arrende e sogna che la Somalia diventi una provincia del Califfato.
SILENZIO SUI CRIMINI IN BIRMANIA
Vi ricordate l’eroina birmana, Aung San Suu Kyi? Il premio Nobel per la pace, simbolo della resistenza democratica al regime dei generali ha finalmente preso il potere nel Myanmar. E cinque mesi dopo le associazioni dei diritti umani, che l’hanno sempre difesa a spada tratta, l’accusano di chiudere un occhio sulla «pulizia etnica» in corso nell’ovest del paese ai danni dei Rohingya, una semi sconosciuta minoranza musulmana. Human Rights Watch ha presentato come prove delle immagini satellitari, che dimostrano come i militari abbiano raso al suolo i villaggi degli islamici. Orribili testimonianze parlano di stupri di gruppo della soldataglia birmana, torture ed esecuzioni sommarie. Il governo di Aung San Suu Kyi prima ha taciuto e poi ha smentito con stizza, ma la zona è off limits per giornalisti e osservatori dei diritti umani.
Dal 9 ottobre al 2 dicembre 21mila musulmani sono fuggiti davanti «al genocidio», come ha denunciato Najib Razak, primo ministro malese. I Rohingya sono appena 800mila e non hanno diritto alla cittadinanza su una popolazione di 50 milioni di birmani con minoranze di vario genere, anche cristiane. Dal 2012 almeno centomila persone sono state cacciate dalle loro case e costrette a vivere in squallidi campi presidiati dalla polizia. Se fosse capitato in Siria per mano di Assad, i giornali di tutto il mondo avrebbero denunciato l’ennesimo orrore in prima pagina, ma dei crimini della lontana Birmania, con il nuovo corso dell’eroina dei diritti umani, non si parla.
SUD SUDAN, L’ORRORE SCONOSCIUTO
L’ultimo paese diventato indipendente, appena cinque anni fa, è sprofondato in una paurosa guerra civile. Il Sud Sudan è dilaniato dallo scontro politico ed etnico fra il presidente, Salva Kiir e il suo ex vice, Riek Machar. I due leader rappresentano le diverse anime del Movimento per la liberazione del popolo sudanese, che ha portato alla nascita del nuovo stato dopo decenni di lotte contro gli arabi del nord. Ribelli e governativi si sono macchiati di atrocità nei confronti dei civili. In novembre è stato denunciato l’ultimo massacro. Un convoglio di auto di civili in fuga dalla città di Yei, nel sud del paese, è stato attaccato dai ribelli. Non solo hanno aperto il fuoco senza pietà, ma dato alle fiamme un camion bruciando vivi gli sfollati. Dall’altra parte della barricata le forze governative vengono accusate di stupri, arresti arbitrari e sparizioni. Una pagina di orrore silenziata dai grandi media. In ottobre 3.500 persone al giorno scappavano dalle loro case per evitare di venire massacrate. Dall’inizio del conflitto, tre anni fa, sono stati reclutati a forza 17mila bambini soldato, da tutti e due i contendenti, ma l’Africa rosso sangue non fa notizia.
Il generale keniota Johnson Mogoa Kimani Ondieki, che comandava un esiguo contingente dell’Onu, è stato silurato per non avere protetto i civili durante i combattimenti esplosi questa estate a Giuba, la capitale. Il 15 dicembre sono arrivati 250 militari giapponesi. Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale i soldati del Sole levante vengono impiegati all’estero con l’ordine di usare le armi per difendere i civili. Purtroppo, però, Adama Dieng, consigliere speciale delle Nazioni Unite, ammette che «l’Onu non dispone dei mezzi adeguati per fermare le atrocità di massa».
GUERRA SCORDATA IN AFGHANISTAN
Dopo quindici anni di intervento alleato, mezzo trilione di dollari spesi e 150mila morti, ci siamo dimenticati dell’Afghanistan, dove la guerra continua e i talebani avanzano. Cinque capoluoghi di provincia sono minacciati dagli insorti del defunto mullah Omar. Uno è Farah, nell’ovest dell’Afghanistan, dove i soldati italiani hanno sputato sangue e sudore per garantire la sicurezza. Adesso sono rimasti solo 900 nella grande base di Herat, ma con compiti soprattutto di addestramento e monitoraggio delle forze armate afghane. I talebani quest’anno sono entrati due volte nel capoluogo Kunduz, nel nord del paese e hanno ripiegato solo grazie ai massicci raid dei caccia americani. Le truppe Usa, che la Casa Bianca voleva ritirare del tutto, sono oramai ridotte a diecimila uomini. Non è una sorpresa che i talebani abbiano il totale controllo di 33 distretti su 400 e circondano le forze governative in altri 116. E ancora più grave è la crescita della bandiere nere, soprattutto nell’Est del paese. Il Califfato afghano conta su 2-3mila uomini in armi, ma il conflitto al crocevia dell’Asia è uscito dai riflettori dei media.
IL BUCO NERO DEL DONBASS
La guerra nel cuore dell’Europa, nell’est dell’Ucraina filo russo, continua, ma non ce ne accorgiamo perché il Donbass è stato relegato in un buco nero. Sia i russi sia gli occidentali hanno preferito congelare l’attenzione su questo fazzoletto di terra controllato dai separatisti e circondato dall’esercito ucraino. In teoria dovrebbe essere in vigore una tregua, ma in realtà si spara e si tirano cannonate ogni giorno. E il processo di soluzione politica previsto dai secondi accordi di Minsk è nato morto. Il Donbass è tormentato da un conflitto a bassa intensità, che fino a oggi è costato, secondo le Nazioni Unite, trentamila morti e feriti. L’ennesima guerra dimenticata.
Commenti
Posta un commento
Partecipa alla discussione