Flavia Perina
Si chiama Global Risk Report, ed è il documento sui rischi globali che ogni anno il vertice di Davos mette a punto e presenta ai suoi associati e ospiti come base di discussione. Quest'anno tra i primi fattori di rischio per l'economia globale ci sono le scelte politiche dei cittadini europei e occidentali in genere: quelle che hanno portato all'elezione di Donald Trump, alla Brexit e alla crescita «di partiti un tempo marginali».
Al “rischio democratico” è dedicata una sezione speciale del rapporto, il cui nocciolo è: l'economia globale ha impoverito i cittadini; il largo accesso a informazioni e relazioni di rete ha messo i cittadini in grado di informarsi e auto-organizzarsi; ciò ha creato un clima ostile alle elìte e instabilità sociale; l'economia ha bisogno di stabilità sociale e quindi è nei guai. Grandissimi guai. E la domanda finale posta esplicitamente è semplice: il nostro modello funziona ancora? Oppure siamo arrivati sul crinale oltre il quale c'è la discesa di una de-globalizzazione a furor di popolo?
Davos non è più un posto importante come in passato. Ad esempio, nella riunione di quest'anno, che si aprirà il 21 gennaio, non ci sarà nemmeno un esponente dell'amministrazione di Donald Trump: che l'appuntamento sia snobbato dagli Usa la dice lunga sulla sua perdita di ruolo. Sono passati i bei tempi di Occupy, quando i Faraoni dell'industria mondiale vivevano come un riconoscimento della loro indiscutibile potenza l'essere assediati da contestatori barbuti e semi-congelati nei loro attendamenti. Da anni, ormai, niente No-global e niente igloo ambientalisti intorno alla cittadina svizzera, un segnale dalla doppia lettura: parla della smobilitazione dei grandi movimenti, ma anche del totale isolamento del club Davos dalla realtà e dalle dinamiche delle opinioni pubbliche. Non c'è più la “controparte” perché non c'è più la “parte”.
Così, il solo fatto che i grandissimi della globalizzazione prendano atto dell'esistenza delle opinioni pubbliche, e del rischio di marginalizzarle oltre il sopportabile, fa capire che il tema è ormai d'emergenza per l'economia planetaria. E la circostanza che questi interrogativi siano posti solo adesso, che abbiano avuto bisogno dello shock della Brexit e della vittoria di Trump per finire all'ordine del giorno, ricorda l'incoscienza con cui un altro modello politico-economico planetario e apparentemente invincibile – il comunismo – precipitò verso la debacle nell'arco di pochi mesi, tra l'agosto e il dicembre del '91. Anche in questo caso, i segnali ci sono da molto tempo e qualsiasi modesto analista avrebbe potuto elencarli. I governi non intendono più mettere la faccia su cose tipo il Ttip, il Trattato transatlantico archiviato dopo un decennio di trattative. La mitica flessibilità si sta rivelando un modello di consumismo senza consumatori, insostenibile per le economie. Persino la parola “riforme”, con cui si è sostenuta per tanto tempo l'avanzata verso i tempi nuovi, ha assunto un significato sinistro per gli elettorati.
Molti degli incontri di Davos si svolgono a porte chiuse, e quindi non sapremo mai se il club dei ricchissimi discuterà la cosa o si limiterà a scansarla come un pensiero molesto e irrilevante per gli affari “veri”.
Ma magari al Global Risk Report potrebbe dare un'occhiata anche la politica, che fino ad ora si è accodata alle indicazioni dei grandi soggetti della globalizzazione come se la priorità di difendere certe dinamiche e certi interessi fosse un dato scontato e non discutibile. Quella certezza non c'è più neppure tra i diretti interessati.
Gli accampamenti di contestatori barbuti si sono trasformati in masse di elettori meno visibili ma altrettanto arrabbiati e assai più pericolosi per gli establishment. E se il signor Alibaba, o il signor Huawei, o il signor Baidu – star della delegazione cinese a Davos – possono fregarsene perché operano in un sistema dove non si vota e governa un partito unico, magari gli altri no. Gli altri dovranno in qualche modo occuparsene prima di essere travolti.
Ma magari al Global Risk Report potrebbe dare un'occhiata anche la politica, che fino ad ora si è accodata alle indicazioni dei grandi soggetti della globalizzazione come se la priorità di difendere certe dinamiche e certi interessi fosse un dato scontato e non discutibile. Quella certezza non c'è più neppure tra i diretti interessati.
Gli accampamenti di contestatori barbuti si sono trasformati in masse di elettori meno visibili ma altrettanto arrabbiati e assai più pericolosi per gli establishment. E se il signor Alibaba, o il signor Huawei, o il signor Baidu – star della delegazione cinese a Davos – possono fregarsene perché operano in un sistema dove non si vota e governa un partito unico, magari gli altri no. Gli altri dovranno in qualche modo occuparsene prima di essere travolti.
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