Di Luca Fazzo
Un lavoro estenuante, incollati al monitor del computer, fotogramma dopo fotogramma.
La tecnologia che ha consentito di individuare gli spostamenti di Anis Amri tra Bardonecchia, Torino, Milano e Sesto San Giovanni - ultima tappa della lunga fuga del terrorista di Berlino - è la più antica di tutte: l'occhio umano. Nell'era del Grande Fratello, dei software fantascientifici, le indagini sulle otto ore trascorse in Italia dall'autore della strage di Breitscheidplatz sono affidate unicamente al lavoro certosino di decine e decine di poliziotti, che dalla mattina del 23 dicembre, quando l'uomo ucciso a Sesto è stato identificato in Amri, setacciano il contenuto di una infinità di telecamere di videosorveglianza alla ricerca del passaggio del tunisino.
Il software di riconoscimento facciale, quello che si vede all'opera abitualmente in film e serie tv, esiste davvero. È, per esempio, uno dei mezzi di lavoro abituale della polizia di frontiera degli Stati Uniti, che registra e archivia le fattezze di chiunque passi i valichi di confine. Ma costa molto. Troppo? Forse oggi, per la prima volta, ci si accorge davvero di come uno strumento simile sarebbe indispensabile per fronteggiare l'emergenza terrorista. Le città italiane sono costellate da una rete di occhi elettronici ormai quasi capillare. Ma la massa di immagini raccolte rischia di servire a poco se non si dispone degli strumenti informatici per analizzarli in tempo reale che hanno invece a disposizione le polizie di altri paesi.
Le prime immagini di Anis Amri individuate dopo la sua morte sono, come è noto, quelle contenute nei filmati della Stazione Centrale di Milano, e diffuse l'altro ieri dalla Digos milanese. Gli inquirenti avevano i fotogrammi della stazione sul loro tavolo già a mezzogiorno di venerdì 23, quando dal conflitto a fuoco di piazza Primo Maggio erano passate appena nove ore, e ancora meno ne erano passate dal riconoscimento - grazie alle impronte digitali - del terrorista in fuga nel cadavere di Sesto. Ma per rendere possibile questo risultato è stato necessario un lavoro febbrile e inevitabilmente a rischio di «errore umano», realizzato passando alla moviola decine di ore di registrazioni.
In questo caso, ad agevolare il compito ha contribuito la certezza sugli abiti indossati da Amri durante i suoi spostamenti, che potevano essere solo i medesimi che portava quando è morto. Così più che un volto nei fotogrammi delle telecamere, si sono cercati le scarpe, i pantaloni, la felpa scura col cappuccio. I pantaloni, in particolare, sono risultati particolarmente riconoscibili, perché si trattava in realtà di tre paia, indossate una sopra l'altra per proteggersi dal freddo, e pertanto sembravano quasi imbottiti. Altrettanto manualmente si sono svolte le ricerche a Torino e a Bardonecchia sui filmati delle stazioni locali, arrivate anch'esse a individuare la presenza del terrorista.
Con un software di riconoscimento automatico, la ricerca sarebbe stata indubbiamente più veloce. E la velocità, in questi casi, è un fattore fondamentale. Basti pensare a un terrorista ancora vivo e in fuga, da bloccare prima che possa colpire di nuovo; o, nella vicenda di Amri, a un eventuale complice che fosse stato filmato insieme a lui. Anche in quel caso, il controllo delle immagini si sarebbe fatto a mano, secondo dopo secondo. Altro che Person of interest.
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