Di Stefano Pitrelli
Agli occhi di un italiano il ritratto che il New York Times presenta di Stephen K. Bannon e del suo rapporto col presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, potrebbe in qualche modo ricordare — senz’addentrarsi in alcuna specifica analogia di natura ideologica — quello di Casaleggio con Grillo: da una parte un ideologo, un visionario che ben conosce il potere della rete, dall’altra un leader carismatico in grado canalizzare una rabbia viscerale.
Bannon qui ci viene raccontato come un uomo dalle molte vite — inclusa una in cui faceva affari con Silvio Berlusconi — sempre sospinto da un’inarrestabile voglia di battersi col resto del mondo. Leggere lui, pare ritenere Scott Shane, l’autore di questo ritratto, è un modo per decifrare che cosa aspettarsi dalla futura amministrazione Trump.
Dopo aver “contribuito ad architettare l’elezione di Donald Trump”, Bannon oggi è “senior counselor" e “chief White House strategist”. Insomma, Bannon è il Mago di Oz di Trump, l’uomo dietro le quinte.
“Nel corso della storia è successo solo di rado che di fianco a un presidente eletto si sia ritrovata una figura altrettanto incendiaria, entusiasmante per i più estremisti fra i sostenitori di Trump e inquietante per le minoranze etniche e religiose, nonché per molti altri americani”.
Il suo punto di vista sul mondo viene definito “oscuro e populista”: in patria, l’antipolitica in nome della difesa dei lavoratori americani; a livello internazionale la “guerra contro l’islamofascimo” di un “Occidente giudaico-cristiano”. Più vicino, si nota, alla destra europea che ai classici repubblicani. E tuttavia, si fa notare, alcuni aspetti del suo pensiero — come quelli espressi quando intervenne via Skype a una conferenza in Vaticano — non lo rendono così lontano dalle posizioni di personaggi della sinistra del partito democratico americano, come Elizabeth Warren e Bernie Sanders: “Neanche un’accusa di reato è mai stata indirizzata nei confronti dei dirigenti di banca legati alla crisi del 2008. Anzi, è ancora peggio. Non gli sono mai stati tagliati né bonus né titoli”, accusò in quell’occasione.
Il Bannon qui dipinto sembra inoltre voler modellare il “suo” Trump in base all’idolo Ronald Reagan (o quanto meno alla sua personale percezione). Fu proprio durante una delle primissime proiezioni del suo documentario su Reagan — intitolato “In the Face of Evil” — che Bannon incontrò un uomo che ne condivideva la venerazione, Andrew Breitbart. Ossia quel medesimo Breitbart del cui omonimo sito avrebbe assunto la guida alla sua morte, nel 2012, cavalcando il disprezzo per i musulmani, gli immigrati in generale e gli attivisti di colore, e calamitando il pubblico della cosiddetta alt-right.
Il rapporto con Trump nasce dopo tanti altri tentati approcci ad altri politici come Sarah Palin, Rick Santorum, Ben Carson e Ted Cruz. Non proprio un colpo di fulmine, quindi, se è vero che — lo riporta il NYT — Bannon avrebbe definito Trump “veicolo imperfetto” della sua rivoluzione. Ma del resto, come si dice, il meglio è nemico del bene.
Bannon, prosegue il NYT, dirotta Breitbart trasformandola in quella che un suo detrattore definisce una “Pravda trumpista”, e si vanta d’esser assurto a uomo ombra della sua campagna, per poi prenderne a tutti gli effetti in mano il timone nell’agosto scorso. Comincia così un “calco” di cui vengono presentati alcuni segni:
- l’uso di espressioni reaganiane come “gli uomini e le donne dimenticati del nostro paese”;
- l’individuazione del radicalismo islamico, al posto del comunismo, quale nemico numero uno;
- ci sarebbero addirittura alcune spillette d’epoca reaganiana sulle quali si legge: “Let’s Make America Great Again”;
- l’attivista ed ex collaboratore di Bannon, David Bossie — colui che lo presentò a Trump nel 2011, quando ancora non si era candidato — riferisce d’aver esplicitamente discusso delle analogie reaganiane con Bannon mentre se ne stavano lì a contemplare le enormi folle in attesa per ore d’ascoltare Trump: “Reagan si era candidato quando molti elettori avvertivano che il Paese era minacciato dall’interno e dall’esterno. (…) Oggi si vedono le stesse cose con Donald Trump — si vede che l’America ha perso la sua rotta e la sua forza, e che gli americani vanno in cerca di una leadership”;
- la coautrice del documentario di Bannon, Julia Jones, in proposito dubbi non ne ha: “Trump è il Reagan di Steve”.
FONTE E ARTICOLO COMPLETO:http://www.huffingtonpost.it/2016/11/29/stephen-k-bannon_n_13305502.html?utm_hp_ref=italy
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