Di Michele Crudelini
L’endorsement del mondo finanziario a ridosso di importanti votazioni è ormai diventata un’abitudine. Si tratta nello specifico della diffusione di notizie, dati e previsioni di scenari trasmessi da colossi della finanza, che descrivono le reazioni dei mercati rispetto ad un possibile esito delle votazioni. Un’abitudine cresciuta di pari passo con l’espansione dell’economia finanziaria, ma il cui peso specifico è divenuto rilevante negli ultimi dieci anni. Ecco alcuni esempi.
A ridosso delle elezioni politiche italiane del 2006 il settimanale inglese The Economist, principale voce del mondo finanziario anglosassone, così scriveva: “L’Italia necessita di riforme radicali, ma Berlusconi, in teoria un liberista economico, ha fatto quasi nulla”. Sempre a ridosso delle elezioni italiane, questa volta nel 2008, il Wall Street Journal, organo di stampa ufficiale di Wall Street, così “minacciava” l’elettorato italiano: “Berlusconi ci ha deluso…si è rivelato un nemico corporativo del Libero Mercato”.
La sequela si è ulteriormente acuita nell’ultimo biennio. Pochi giorni prima del Referendum consultivo proposto in Grecia dal Governo Tsipras nel luglio 2015 alcuni analisti della banca d’affari americanaGoldman Sachs pubblicarono una ricerca sui possibili scenari post-voto. Goldman Sachs affermava che l’approvazione popolare del pacchetto di riforme e le dimissioni del Governo Tsipras avrebbero portato “stabilità nei mercati e investimenti nel Paese”, mentre una mancata approvazione popolare avrebbe causato “una minaccia concreta di Grexit” e un periodo di instabilità politica ed economica.
Il Referendum greco si è risolto con il rifiuto dei greci di accettare il pacchetto di riforme proposto da Commissione europea, BCE e FMI, tuttavia non vi è stata né una Grexit né instabilità politica. Tali scenari molto spesso non hanno alcun riscontro con la realtà .
Sono state però le due votazioni del 2016, il Referendum del Regno Unito e le presidenziali americane, ad aver mostrato fino a dove possono arrivare le minacce del mondo finanziario e quanto poco infine contino sull’andamento reale dell’economia.
Nell’aprile del 2016, a due mesi dal Referendum britannico, l’Ocse, Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, pubblicava un’ipotesi di scenario in caso di vittoria del Brexit in cui la perdita netta per famiglie nel Regno Unito sarebbe stata di almeno 3200 sterline entro il 2030.
Il 3 giugno del 2016 a rimarcare i toni ci pensò Jamie Dimon, CEO di Jp Morgan, che definì il Brexit “una terribile minaccia”, prospettando il taglio di “4.000” lavoratori impiegati nella filiale londinese. Sempre nel giugno 2016 Goldman Sachs faceva sapere attraverso una nota: “Se si deciderà di votare per lasciare l’Ue, l’incertezza aumenterà così come accadde dopo il crack di Lehman Brothers”. A pochi giorni infatti dalle votazioni i mercati parevano rispecchiare le minacce verbali dei loro attori: come riportato da Wall Street Italia il 16 giugno 2016 “l’indice FTSE 100 della Borsa di Londra è sceso sui minimi in quattro mesi…l’azionario del Regno Unito ha perso un valore di mercato pari a 100 miliardi di sterline”.
Delineato un simile scenario, ci si sarebbe dovuti aspettare che la popolazione terrorizzata votasse in massa per il “Remain”. Invece il Brexit ha vinto con il 51.9% di preferenze. Non solo ha vinto, ma ha smentito tutte le minacce portate durante la campagna elettorale. Secondo le stime fatte nel settembre 2016 da UBS, colosso svizzero di servizi finanziari, “il PIL britannico continuerà a crescere dell’1.9%”.
Mentre Repubblica, in un editoriale del 23 settembre 2016, mostrava il seguente grafico dove la borsa di Londra risultava essere quella più in salute tra le piazze affari europee.
Anche Joe Grice, capo economista dell’Office for National Statistics britannico, commentò positivamente il Brexit: “In effetti lo shock non c’è stato. Fino ad ora sembra che il risultato del Referendum non abbia avuto effetti di rilievo sull’economia nazionale. Diciamo che il Regno Unito non è caduto al primo ostacolo”. In tutto questo la sterlina è sì crollata del 15% l’8 ottobre scorso, tuttavia tale svalutazione era dovuta, come riportato dal portale Bloomberg, all’errore di alcune “automated trades” di Tokyo (macchine che eseguono transazioni automatiche). Il valore della sterlina da allora è in continua ripresa, ad oggi una sterlina vale 1,24087 dollari statunitensi (il 5% in più rispetto all’8 ottobre).
Le elezioni presidenziali americane ci hanno regalato un analogo teatrino. Sulla rivista Foreign Policy del 26 ottobre 2016 si fece espressamente riferimento al fatto che “Wall Street stia disperatamente cercando la vittoria della Clinton…perché i banchieri odiano l’incertezza, e l’incertezza è una delle cose che la presidenza Trump potrebbe portare”. Remy Briand, amministratore delegato della società di ricerca Msci (Morgan Stanley Capital International) così definì la possibilità di una vittoria di Trump: “Con le politiche populiste si può avere una reale possibilità di tornare a tassi d’inflazione senza crescita. È uno scenario difficile da ignorare”. Mentre un’altra minaccia era arrivata da Jack Ablin, direttore della banca privata Bmo, una delle “Big Five” banks in Canada, il quale affermò come “ai mercati piaccia molto avere democratici nello Studio Ovale”. In un articolo uscito sull’Unità il 7 novembre 2016 il seguente grafico mostra come il mercato azionario Usa abbia “registrato sempre risultati migliori durante le presidenze democratiche”.
Ancora il Foreign Policy ci svela che i servizi finanziari hanno donato 65 milioni di dollari per la campagna della Clinton, mentre Trump ne ha ricevuti solo 716,000.
Come accaduto qualche mese fa nel Regno Unito, anche i cittadini statunitensi se ne sono fregati dell’ “incertezza” e hanno scelto il candidato più minaccioso per i mercati finanziari. La differenza tra quanto minacciato e realtà risulta dei fatti ancor più evidente negli USA rispetto al dopo Brexit. Lunedì 21 novembre infatti il Dow Jones ha raggiunto quota 18.956,69 punti (+0.5%), lo S&P500 è salito dello 0.75% toccando quota 2.198,18 punti e anche il Nasdaq è salito fino allo 0.9%. Una congiuntura positiva che non si vedeva dal 1999.
Tant’é che sia il portale Bloombergche il Financial Times si sono improvvisamente riscoperti sostenitori del tycoon, dopo mesi di campagna pro Clinton. Bloomberg scrive che questo risultato è frutto dell’ “ottimismo intorno alla Trumponomics e agli stimoli fiscali che abbiamo chiesto per anni”, mentre il Financial Times ammette che il potezionismo trumpista giovi alle piccole e medie imprese americane. Il rialzo al 10% della media impresa Russell 2.000 lo dimostra. In un periodo storico in cui sembra che il peso del singolo cittadino sia nullo in confronto a quello di aggregati economici dal fatturato plurimiliardario, queste due votazioni hanno dimostrato il contrario. Il popolo è ancora in grado di scegliere di testa sua e i mercati finanziari non crollano a seguito di votazioni, per quanto importanti possano essere. Tutte le grandi crisi economiche nella storia, dal giovedì nero del 1929, passando per la crisi argentina del 1999, fino al crollo dei subprime del 2008, sono state causate da meccanismi interni al sistema finanziario. In nessun modo la votazione popolare può distruggere un sistema economico.
FONTE:http://www.occhidellaguerra.it/popolo-vale-piu-della-finanza/
Titolo originale:"Quando il popolo vale più della finanza"
Titolo originale:"Quando il popolo vale più della finanza"
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