Di Matteo Rossi
Al Gazali (1059-1111) fu il più famoso teologo musulmano, e chiamato dagli scolastici latini Algazel. Insegnò dapprima a Bagdad, poi a Damasco, Gerusalemme ed infine Alessandria. In età matura si ritirò nella sua città natale, Tous, nel Khorasan, dove si dedicò alla meditazione sûfi, componendo molti scritti sull’islamismo mistico[1].
Dopo un breve ritorno all’insegnamento nel collegio di Bagdad, ritornò a Tous dove fondò un monastero sûfi e visse di contemplazione e preghiere. Domenico Guinsalvi fu colui che lo fece conoscere in occidente, traducendo Le tendenze dei filosofi e La distruzione dei filosofi. Nella seconda opera Al Gazali prese di mira le teorie di Avicenna, in quanto filosofia della necessità. Dio è lo stesso essere necessario, e anche il mondo come realtà in atto è necessario come in rapporto a Dio. Al Gazali invece si riconnette alla tradizione dei Mutakallimum, rivendicando la libertà dell’azione divina, presupposto di ogni atteggiamento religioso; si attacca così l’ordine necessario, al quale invece Avicenna aveva ridotto Dio e il mondo. Per Avicenna il mondo era stato creato da una volontà eterna che ne aveva decretato l’esistenza, e che aveva posto a tale esistenza limiti definiti nel tempo. Secondo sempre Avicenna, ciò implicherebbe un mutamento nella volontà divina, mutamento inconciliabile con l’eterna necessità di essa. Ma questo mutamento non offre appiglio ad alcuna obiezione per Al Gazali, che non vede più in Dio l’essere necessario. Questo attacco culmina nella critica stessa al concetto di necessità, espresso nel principio causale[2]. Causa ed effetto sono nettamente separati tra loro e non legati insieme per la propria esistenza, ma disgiunti e liberi secondo il volere divino, comunque legato ad un volere pre-determinato; il ‘miracolo’ è possibile e garantito perché l’azione di Dio è libera e non legata ad un ordine determinato.
Dopo un breve ritorno all’insegnamento nel collegio di Bagdad, ritornò a Tous dove fondò un monastero sûfi e visse di contemplazione e preghiere. Domenico Guinsalvi fu colui che lo fece conoscere in occidente, traducendo Le tendenze dei filosofi e La distruzione dei filosofi. Nella seconda opera Al Gazali prese di mira le teorie di Avicenna, in quanto filosofia della necessità. Dio è lo stesso essere necessario, e anche il mondo come realtà in atto è necessario come in rapporto a Dio. Al Gazali invece si riconnette alla tradizione dei Mutakallimum, rivendicando la libertà dell’azione divina, presupposto di ogni atteggiamento religioso; si attacca così l’ordine necessario, al quale invece Avicenna aveva ridotto Dio e il mondo. Per Avicenna il mondo era stato creato da una volontà eterna che ne aveva decretato l’esistenza, e che aveva posto a tale esistenza limiti definiti nel tempo. Secondo sempre Avicenna, ciò implicherebbe un mutamento nella volontà divina, mutamento inconciliabile con l’eterna necessità di essa. Ma questo mutamento non offre appiglio ad alcuna obiezione per Al Gazali, che non vede più in Dio l’essere necessario. Questo attacco culmina nella critica stessa al concetto di necessità, espresso nel principio causale[2]. Causa ed effetto sono nettamente separati tra loro e non legati insieme per la propria esistenza, ma disgiunti e liberi secondo il volere divino, comunque legato ad un volere pre-determinato; il ‘miracolo’ è possibile e garantito perché l’azione di Dio è libera e non legata ad un ordine determinato.
Ibn Badja o Avempace per i latini, fu il primo filosofo famoso tra i Moriscos spagnoli. Nacque a Saragozza verso la fine del secolo XI, morì in età avanzata nel Nordafrica, a Fez. Sosteneva la necessità della solitudine, situazione ideale e ricercata dall’uomo savio e retto per poter conseguire l’illuminazione e la comunione con il divino. Scrisse il Regime del solitario proprio per chiarire questo concetto, mostrando così una via pratica nella visione altrimenti filosofica della rinuncia al mondo, superando così le verità speculative, utilizzando sempre le ragioni che determinano e rientrano nel dominio dell’intelletto. Il problema aristotelico dell’intelletto diviene con Ibn Badja una via di elevazione e di ascesi, trasformato da mero problema di speculazione logica e metafisica in problema religioso.
Ibn Tofail o Abukerk nacque verso il 1100 a Guadix in Andalusia, e fu medico, matematico, filosofo e poeta. Ministro alla corte degli Almohadi, seppe attirarvi i migliori sapienti del tempo, divenendo un protetto della corte e incaricato così di comporre un’analisi ragionata dell’opera omnia di Aristotele. Nelle sue opere tende a creare un’accordo tra la filosofia e lareligione islamica, le quali per lui danno gli stessi risultati e hanno gli stesi scopi, pur partendo da impostazioni a volte diverse. L’intelletto universale è il vero agente della conoscenza umana, e costituisce l’ultima emanazione dell’Essere supremo. L’intelletto umano o potenziale è dominato e diretto da esso.
Averroè, Ibn Rosch è probabilmente il più celebre tra i commentatori diAristotele; nacque alla corte di Cordova nel 1126, da una famiglia di giuristi e uomini di legge. Egli seguì la strada del padre, divenendo però anche ottimo medico, matematico e filosofo. Il re Yusuf gli affidò molti incarichi importanti, in Spagna e in Marocco. Cadde però in sospetto di eresia[3], con accusa di promuovere la filosofia dei greci a discapito di quella musulmana. Fu relegato nella città di Eliana (Lucena) presso Cordova, dove gli si impose il divieto di uscire. Qui subì gli insulti dei fanatici, che lo scacciarono dalla moschea locale. Fu poi mandato in Marocco e non rivide mai più la Spagna. Morì a 73 anni nel 1198.
Le sue opere, per ordine della corte di Almansur, furono bruciate e si riuscirono a salvare soltanto le traduzioni ebraiche. Tra questi i Commentariifurono certamente il corpus più importante; per lui la partenza fondamentale per la sua opera filosofica era la creazione di un sistema, di un codice impostato su quello aristotelico che continuava comunque ad essere verità somma e costante. Agli attacchi dei fanatici rispondeva che non si può fare miglior servizio a Dio che non interpretando il suo capolavoro cosmico. Divise il mondo filosofico in ambito esoterico, riservato ai dotti e piccole enclave, elaborando speculazione e profondità, mentre la religione doveva essere il linguaggio divino per il popolo, che potesse arrivare tramite canali diversi. La speculazione dei dotti doveva entrare in profondità nelle cose terrestri e metafisiche, senza timori di accuse riguardo la mancanza di rispetto verso la sfera divina, poiché solo così anzi si poteva valorizzare sul ruolo dell’uomo sulla terra. Gli storici latini gli attribuirono un principio sistemico di doppia verità, poiché secondo loro egli applicava un canale doppio alle materie umane[4], anche se non tutti i suoi commentatori successivi riconobbero come tale. La dottrina tipica dell’averroismo è quella dell’intelletto.
Per Averroè l’intelletto materiale non è l’anima umana, e non lo è per le stesse ragioni per cui non lo è l’intelletto attivo: le sue forme intellegibili sono il suo oggetto potenziale e universali, eterne ed indistruttibili. Se però seguissero le sorti dell’anima umana, per lui diversa da individuo ad individuo, allora sarebbe fallace e materica. L’intelletto fonda la natura ultima dell’uomo, poiché la felicità consiste nel coltivare ed estendere la capacità speculativa, teoria già esposta da Aristotele nella Vita Teoretica. La scienza rimane l’unica via della beatitudine umana proprio perché indaga questi misteri e riesce ad arrivare dove la semplice contemplazione religiosa non riesce a giungere. Averroè arriverà poi a negare l’immortalità dell’anima, ponendo il fine ultimo dell’uomo nella beatitudine che sia può raggiungere in questa vita con la ricerca delle verità supreme, senza puntare a ciò che verrà dopo[5]. Averroè nega poi l’inizio del tempo, e la sua fine, poiché l’essere possibile, che è quello del mondo, ha poco a che vedere con la creazione, essendo preesistente. Dio non crea nulla fuori da sé, poiché è già tutto dentro di lui, ogni singolo istante, e in questo attacca Avicenna che sosteneva invece la creazione come origine di un momento imprevisto nel tempo[6]. Lo stesso lo rimarca riguardo alla scienza; Dio governa il mondo con delle regole, che però non hanno niente a che vedere con quelle dell’uomo o propriamente umane. L’ordine delle stagioni, del tempo, delle eclissi, è necessario ed infallibile. Ciò che è veramente individuale o causale, sfugge alla provvidenza e quindi alla scienza divina, divenendo non-essere e quindi negazione dell’esistenza stessa.
La volontà umana per Averroè è determinata dall’ordine necessario del mondo e delle cose, e quindi il libero arbitrio sarebbe legato indissolubilmente al cosmo; perciò il Corano parla di una infallibile predestinazione dell’uomo.
Note
[1] N.Abbagnano, Storia della Filosofia, Utet, Torino 2013, pag. 495.
[2]Le critiche antifilosofiche di Al-Gazali sono animate dalla consapevolezza della impossibilità di trovare ragioni certe che dimostrino le verità coraniche fondamentali: Dio quale unico creatore del mondo; gli attributi divini (potenza, sapienza, vita, volontà, ragione, vista, parola); l’unità di Dio e la sua conoscenza dei particolari; l’esistenza di un’anima immortale insufflata da Dio nell’uomo, che risorgerà in un corpo nel giorno del giudizio. Questa stessa preoccupazione, di natura teologica più che filosofica, motiva la veemenza delle polemiche contro i più gravi errori commessi dai filosofi che lo hanno preceduto: l’eternità del mondo; la dottrina, di origine neoplatonica, secondo cui dall’Uno viene un altro uno (per l’Islam l’Unità è prerogativa divina); il problema della metafisica e della distinzione tra ‘essenza determinata’ ed ‘essenza indeterminata’. La critica di Al-Gazali si estende poi anche al Kalam, cioè all’uso di dimostrazioni filosofiche all’interno della scienza teologica. Pur non rifiutandolo in assoluto, egli riduce la sua funzione a un ambito strettamente apologetico o esplicativo delle verità date dalla Scrittura. Vedi in AAVV, Al Gazali, Bulzoni Editore, Roma 2013.
[3] Sotto il re Almansur, artefice di un movimento contro-filosofico molto grave.
[4] Anche se Averroè indicava una verità unica; il filosofo cerca la verità necessaria tramite il Corano e i testi sacri, ma la raggiunge filosoficamente.
[5] Che secondo la sua interpretazione consisterebbe in un riassorbimento tramite i vari cieli del cosmo.
[6] Se Dio ha creato il mondo dal nulla, come dice Avicenna, può significare solo che egli l’ha creato per un motivo estraneo alla sua natura, oppure che sia sopravvenuto un mutamento che ha indotto o determinato alla creazione. Entrambe le possibilità per Averroè sono impossibili, poiché nessuna cosa può mutare sé stessa, nemmeno la natura divina che non cambia sé stessa ma è aristotelicamente immanente.
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