Di Emanuele Rossi
Ancora non è definitivo il bilancio dell’attacco al ristorante Holey Artisan Bakery avvenuto venerdì sera a Dhaka, la capitale del Bangladesh. Il locale preso d’assalto si trova in un quartiere centrale della città, dove sono situate le ambasciate e diversi luoghi turistici: due aspetti che con ogni probabilità si sommano nel movente che ha mosso il commandos di una decina di uomini dello Stato islamico a colpire.
GLI ATTACCHI
Non è chiaro se l’Isis abbia una reale presenza organizzata nel paese, oppure se le azioni sono ispirate dal proselitismo o dalla predicazione, fatto sta che negli ultimi due anni, attacchi orribili compiuti da islamisti radicali, rivendicati con autodichiarazioni o con messaggi dei media collegati all’Isis, hanno preso di mira indù, intellettuali,scrittori e blogger laici, cooperanti (come l’italiano Cesare Tavella) e religiosi non islamici, come il missionario Piero Parolari (anch’egli italiano, scampato miracolosamente a all’assassinio) e diversi chierici indù. Due le azioni più eclatanti, contro credenti sciiti, una durante un corteo per la festa dell’Ashura e una contro una moschea; e anche un posto di blocco della polizia è stato attaccato. Michael Kugelman, esperto di Asia del think tank americano Woodrow Wilson Center, ricorda su Twitter che lo Stato islamico ha rivendicato più attacchi in Bangladesh che in Afghanistan o Pakistan. Si è trattato per lo più di gesti minori, singoli, diversi per ora dall’azione paramilitare che ha attirato i riflettori internazionali messa in atto all’Holey, ma comunque c’erano già una fitta serie di segnali che pare i vertici politici di Dhaka abbiano ignorato e minimizzato.
IL CLIMA NEL PAESE
Per lunghi mesi il governo, guidato dal primo ministro Sheikh Hasina, ha sempre respinto le ipotesi che i baghdadisti avessero una propria rappresentanza organizzata all’interno del paese (che già in passato aveva avuto problemi con il radicalismo islamico di fazioni filo-qaediste, come il Jamaat ul-Mujahideen Bangladesh, JMB, gruppo terroristico che ha lanciato una serie di attacchi a raffica in tutto il Bangladesh nel 2005, ma poi per diverso tempo il fondamentalismo è entrato in una sorta di quiescenza). Il Bangladesh ha una delle più grandi popolazioni musulmane del mondo. La soluzione adottata da poco da parte dell’esecutivo di Dhaka, trovatosi alle strette visto il ripetersi continuo di attentati, è il pugno duro, un rastrellamento a maglie fittissime che nell’ultima operazione di poche settimane fa ha portato all’arresto di circa dieci mila persone. Di queste, poi, soltanto un centinaio sono risultate potenzialmente pericolose: quelli finiti nelle attività di repressione della polizia erano per lo più delinquenti con accuse di reati minori, mentre diversi di loro erano attivisti dell’opposizione.
LE REPRESSIONI DEL GOVERNO
“Gli esperti antiterrorismo dicono che il governo Hasina ha speso più energia per consolidare la sua posizione e sopprimere i suoi oppositori che per affrontare la diffusione della violenza islamista nel Paese”, scrive il Washington Post in un articolo dal titolo eloquente: “Un attacco dell’Isis nella capitale del Bangladesh non dovrebbe sorprendere nessuno”. Un recente report del Crisis Group (centro d’analisi americano specializzato in scenari di crisi) ha sostenuto che un sistema giudiziario distorto e la mano pesante dell’Awami League, il partito di Hasina (tradizionalmente laico e di centro-sinistra) hanno contribuito nel porre le basi per ulteriori violenze e disordini e per infuocare la militanza islamica combattente. La repressione del dissenso, lo stile autoritario dell’esecutivo, per gli analisti, rischiano di trovare sfogo soltanto nelle istanze del radicalismo religioso islamico, che vi si contrappone sia per ideologia sia per pragmatica, ossia per aumentare i propri consensi. È per certi versi l’islamizzazione dell’estremismo di cui l’islamistaOlivier Roy ha parlato: la polarizzazione della situazione politica può essere un ottimo bacino culturale per il proselitismo integralista; i sostenitori di Hefazat-e-Islam, il più grande movimento islamista radicale in Bangladesh hanno più volte marciato per manifestare la propria contrarietà al secolarismo, per esempio, e passare dalle manifestazioni pacifiche alle derive estremiste non è poi così difficile. Scrive oggi su Repubblica Jason Burke: “A dispetto delle decine di omicidi, negli ultimi due anni, di blogger laici, esponenti di minoranze religiose, perfino poliziotti e occidentali, le autorità del Bangladesh non hanno ancora adottato misure efficaci contro le reti islamiste. La Hasina ha addossato la responsabilità degli attentati ai partiti di opposizione, ha cercato di ingraziarsi i conservatori accusando alcune delle vittime di aver incitato gli assassini a ucciderli «insultando» la religione e ha negato completamente la presenza di Al Qaeda o dello Stato islamico nel Paese”.
L’AVVISO DI DABIQ
“I soldati di Khilafah continueranno ad aumentare ed espandersi nel Bengala” scriveva un articolo dedicato al Bangladesh (definito “Bengala”) uscito nel numero di novembre 2015 di Dabiq, il magazine dello Stato islamico: nel pezzo si diceva che un nuovo leader era già nel paese e veniva chiesto a tutti i gruppi islamisti locali di unirsi sotto la bandiera del Califfato. Il richiamo era diretto soprattutto ai militanti del JMB, che potrebbero portare in dote all’Is un buon network radicato. Diverso invece il caso di Ansarullah Bangla Team (ABT), che ha legami più stretti con al Qaeda e segue gli insegnamenti dello spietato predicatore americano/yemenita Ansar al Awlaki, e che potrebbe diventare il gruppo di concorrenza ai baghdadisti nel jihadismo bengalese.
IL COMMENTO DI OLIMPIO
Scrive oggi Guido Olimpio del Corriere della Sera: “La tradizione estremista nel Paese musulmano risale ai tempi della lotta contro i sovietici in Afghanistan. Allora molti bengalesi si sono uniti ai mujaheddin e, successivamente, non pochi sono confluiti nel movimento di Bin Laden. Chi è rimasto legato alla linea di Osama è finito in fazioni come Ansar al Islam e Jamatul Mujaheddin. Gruppi composti da alcune centinaia di elementi suddivisi in cellule. Una presenza diffusa che ha portato a molti agguati. Spesso azioni condotte con armi semplici, sufficienti comunque per dare del filo da torcere alle autorità. Una minaccia raddoppiata dall’apparizione dello Stato Islamico”.
L’ANALISI DI BURKE
L’esperto Jason Burke su Repubblica sottolinea “l’interesse mostrato dai due principali gruppi islamisti attivi attualmente (Al Qaeda e lo Stato islamico, appunto) per il Bangladesh”. La rivalità fra le due organizzazioni, e la faida personale tra i rispettivi leader, Ayman al Zawahiri e Abu Bakr al Baghdadi, è profonda, scrive Burke: “È una delle principali ragioni della violenza che attraversa il mondo islamico e non solo, ma va in scena con una particolare veemenza in Bangladesh. Il Paese è lontano dalla principale zona di interesse dell’Is, con il suo Califfato mediorientale. Ma è pienamente all’interno dell’area che Al Qaeda, presente nell’Asia meridionale fin dagli Anni ’80, considera il suo cuore. Una filiale creata da Al Qaeda nel 2014 specificamente per l’Asia meridionale non è riuscita a stabilire una presenza efficace. Se il Bangladesh appare come una potenziale area di espansione sia per l’Is che per Al Qaeda, solo per quest’ultima riveste aspetti esistenziali”.
(Foto: Wikicommons)
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