Di Lidia Baratta
«Ãˆ il terzo mondo del calcio». Così Walter Pettinati, direttore del sito Calciodonne.it, definisce il calcio femminile in Italia. Mentre i colleghi maschi macinano soldi e strappano contratti milionari, le donne del calcio italiano non accedono neanche al grande salvadanaio dei diritti televisivi. Ogni anno, le squadre di calcio professionistiche e dilettantistiche si spartiscono 1 miliardo di euro circa incassato dalle televisioni. Un guadagno in costante aumento, di cui alle donne però non arriva niente. Tanto che lo stesso Pettinati ha lanciato ora una petizione per chiedere di destinare anche solo l’1% della somma totale dei diritti tv ai campi femminili.
La legge Melandri-Gentiloni del 2008 stabilisce che la cifra incassata dalla serie A di calcio dalla vendita dei diritti televisivi venga decurtata del 10%, destinato alla “mutualità ”, cioè alle categorie inferiori, ai settori giovanili e al calcio dilettantistico. «Circa il 6% di questo importo sarebbe destinato alla serie B», spiega Pettinati, «e il 4% alla Lega nazionale dilettanti», di cui il calcio femminile fa parte come dipartimento. Essendo, come tutti gli altri sport femminili, non qualificato come professionistico. «Ma questi soldi vengono spartiti solo tra le squadre di calcio maschile: al calcio femminile e alle società non arriva niente».
Non solo. La trattativa con la Rai per trasmettere qualche partita (non tutte, per carità , e in differita) si è pure conclusa con un nulla di fatto. Perché la Rai in cambio chiedeva un rimborso spese di decine di migliaia di euro alle società , che non possono permetterselo. Per le donne funziona al contrario: devono pagare per vedere le partite trasmesse in tv. E alla fine i match si potranno vedere per lo più suProfessionecalcio.net.
Così, mentre il calcio, quello maschile, è lo sport nazionale, generando un giro d’affari di 13,7 miliardi di euro, il calcio femminile arranca tra pochi sponsor e alte quote di iscrizione ai campionati. Perché, come avviene per i maschi, anche per le donne ci sono i campionati nazionali di seria A e serie B, la primavera e i settori giovanili. E ci sono le squadre di punta, che in questo caso sono Verona, Brescia e Mozzanica. Ma dimentichiamo i contratti milionari, le foto sugli yatch e la vita da sogno dei calciatori uomini. «Nella maggior parte dei casi gli stipendi delle giocatrici sono tutt’al più dei rimborsi spese. Solo poche, quelle che vanno in nazionale, arrivano a guadagnare 1.000/1.500 euro al mese», dice Pettinati. La maggior parte delle giocatrici, anche quelle di serie A, studiano o lavorano. E nel tempo libero si allenano. Per le donne italiane, insomma, non è possibile fare del calcio un lavoro. Un disegno di legge sul professionismo sportivo femminile in realtà esiste, ma da tempo è stato dimenticato nei cassetti del Senato.
Nel resto d’Europa, ovviamente, non funziona così. In Germania, per dirne una, ogni squadra che partecipa al campionato percepisce ogni anno 800mila euro dalla federazione. L’Inghilterra, nel 2008, ha sottoscritto con la Uefa un piano quinquennale per lo sviluppo del calcio femminile. E in tutto il Nord Europa le calciatrici sono professioniste proprio come i colleghi maschi. Da noi, invece, restano dilettanti. E nulla si muove. I finanziamenti dei progetti della Uefa e della Fifa – che ci sono – vengono girati tutt’al più alla nazionale. «Ma le ragazze durante tutto l’anno vivono nelle società », sottolinea Pettinati.
E se le squadre hanno le casse mezze vuote, investire in progetti di comunicazione è impensabile. E anche gli affari del calciomercato per sottrarre le giocatrici migliori anche ai Paesi del Nord Europa sono fantascienza. Il risultato è che gli spettatori sugli spalti, tranne in poche occasioni, si contano sulla punta delle dita.
Eppure le nostre giocatrici hanno collezionato ben più di un successo, come la vittoria dell’Europeo under 19 nel 2008 e il terzo posto ai mondiali under 17 in Costa Rica nel 2014. «Grandi risultati che però non hanno portato a nessun rinnovato interesse da parte della federazione», dice Pettinati. Figurarsi poi se le cose potevano migliorare con l’arrivo di Carlo Tavecchio alla guida della Federazione italiana giuoco calcio (Figc), lo stesso che – parole sue – pensava che le donne sportive fossero“handicappate”. In realtà Tavecchio, ex presidente della Legan nazionale dilettanti, nel suo programma aveva inserito lo sviluppo del calcio femminile. Ma questo sviluppo ancora non s’è visto.
Soprattutto se lo paragoniamo a quello maschile. Chi conosce e frequenta gli spogliatoi femminili denuncia soprattutto la mancanza di risorse. I diritti tv, quindi, potrebbero essere un aiuto importante per risollevare gli stadi popolati dalle donne. Che, rispetto ai colleghi maschi, raccontano tutti, «godono di un tifo non violento. E dentro e fuori il campo viene sempre vissuto tutto come se fosse un terzo tempo». Tra l’altro, fa notare la petizione lanciata da Walter Pettinati, va ricordato che le donne partecipano a generare i profitti dei diritti tv, sono presenti allo stadio con le tifoserie, conducono trasmissioni di calcio in tv, fanno abbonamenti alla pay tv e a volte arrivano a possedere anche i club (vedi Rosella Sensi con la Roma). E allora perché destinare i soldi dei diritti solo agli uomini?
L’obiettivo della petizione lanciata da Pettinati è anche quello di avere le risorse per mettere in piedi una lega indipendente per il calcio femminile in modo da dialogare senza intermediari con Fifa e Uefa. E cercare di entrare nell’Olimpo delle donne del calcio. Con buona pace di Tavecchio.
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