Di Diego Fusaro *
La conoscenza stabile è quella basata sull’episteme, quella mutevole ed opinabile sulla doxa. Ancora una volta riscontriamo una chiara influenza pitagorica: i Pitagorici, infatti, individuarono il numero come principio della realtà e crearono una “piramide” di principi che partiva dalla coppia finiti-infinito e da lì si generavano tutte le altre coppie. Per il momento diciamo che i livelli platonici sono 4 (anche se quelli fondamentali restano 2). L’eikasia ha a che fare con la radice eik- di somiglianza, apparenza: è opportuno tradurla con “immaginazione”, ma va depurata da tutti i significati che le attribuiamo noi; è la capacità di cogliere le immagini; si tratta di verità addirittura inferiori a quelle del mondo sensibile e possiamo in parte identificarle con le opere d’arte, ma anche con i riflessi delle cose, come gli specchi o le superfici di laghi o fiumi:Platone aveva in mente tutte le riproduzioni del mondo sensibile; ma molti studiosi hanno anche sostenuto che nella capacità di immaginazione si possa vedere anche un primitivo atteggiamento conoscitivo: si tratta della pura e semplice sensazione; quando prendiamo in mano un quaderno abbiamo dapprima una pura e semplice percezione sensuale: notiamo la forma, il colore…Conoscere realmente un quaderno significa mettere insieme le sensazioni e sfruttarle; forse per capire meglio basterebbe chiudere gli occhi e stringere un libro: lo si percepirebbe con il tasto e si potrebbe immaginare cosa si vedrebbe ad occhi aperti; verso la fine del ‘600 si cominciarono ad effettuare i primi interventi di cataratta e si fecero vedere per la prima volta persone che non avevano mai visto: quando costoro riferirono le loro impressioni si scoprirono cose interessanti; per esempio non riuscirono ad identificare con la vista ciò che per anni avevano toccato; chiaramente è molto differente da ciò che intendeva Platone, ma ci permette comunque di capire che l’oggetto della conoscenza (sebbene la conoscenza empirica sia inferiore a quella intellegibile)è il risultato di operazioni complesse: si associano esperienze visive con esperienze tattili; tuttavia non siamo per niente sicuri che Platone ci sia davvero arrivato. La pistis, che possiamo tradurre con “credenza” è il soggetto conoscitivo degli oggetti sensibili. Della episteme abbiamo già parlato: i suoi oggetti sono intellegibili, ma non necessariamente idee; o meglio, ci sono sì le idee, ma anche gli enti matematici che possiamo suddividere in a) geometria, b) musica, vista come rapporti matematici, c) stereometria, che è la geometria dei corpi solidi, d) astronomia ,vista come scienza del movimento dei solidi :erano le arti del “quadrivio”, diremmo oggi le materie scientifiche che già all’epoca si contrapponevano a quelle umanistiche. Dunque la dianoia corrisponde alla matematica in generale, la noesis alle idee; Platone era molto interessato di matematica (anche qui possiamo riscontrare un’influenza pitagorica) e proprio sull’entrata dell’Accademia (i cui resti si possono vedere qui sotto) c’era scritto “Non entri chi non conosce la matematica”: essa per Platone aveva una valenza propedeutica e di ginnastica mentale. Per un verso assomiglia alla filosofia perchè ha oggetti stabili, permanenti e non sensibili (uso sì disegni, ma per dimostrare su idee) per un altro presenta grandi limiti: si pensa sì ad idee, ma si lavora pur sempre su cose sensibili: occorre sempre l’appoggio del piano sensibile; la filosofia invece è un percorso mentale tutto interno alle idee. La matematica ha poi bisogno di ipotesi: si parte da postulati e da definizioni: cose che vengono accettate senza venir dimostrate; la filosofia ha invece un carattere critico: non si accetta mai nessuna cosa per data e si tende a mettere sempre in discussione fino ad arrivare alla conoscenza. Bisogna infatti risalire tutte le ipotesi fino ad arrivare ad una ipotesi indiscutibile da cui derivano tutte le altre. Va poi ricordato che gli oggetti matematici sono su un piano intermedio: hanno caratteristiche di idee (l’immutabilità) ma anche di enti empirici (la molteplicità):molteplicità e immutabilità sono proprio 2 dei principali aspetti che differenziano il mondo sensibile da quello intellegibile; il numero 3, ad esempio, è immutabile ma in un’espressione matematica lo si può scrivere più volte. Dianoia e noesis hanno entrambe la radice di “nous”, intelletto: la noesis è la versione pura e senza aggiunte e si può tradurre con “intellezione” ;dianoia è più complessa perchè compare la radice “dià”, attraverso-mediante, he implica il passaggio da qualcosa a qualcos’altro e si può tradurre con “ragionamento discorsivo”: in un’espressione ci sono diversi passaggi e si passa di continuo da mondo empirico a mondo intellegibile. La noesis è l’intellezione, la contemplazione delle idee. La diversa lunghezza dei segmenti nel disegno di prima suggerisce una chiara gerarchizzazione: un segmento più è lungo e più è conoscibile, vale a dire che contiene un maggior tasso di essere.
Il punto di arrivo della conoscenza è il bene in sè, l’idea di bene, cui Platone allude qua e là nei suoi dialoghi, sempre velatamente ,chiamandola “misura”, “uno”, “bellezza”…Si tratta del più alto livello di argomentazione platonica: ce ne parla però in maniera molto indiretta e sfumata e doveva rientrare nelle dottrine non scritte; Platone stesso ci dice che lui non ne parlerà usando una strana metafora, che si può definire “bancaria”: dice che parlerà “del figlio e non del padre”, termini che in greco significano anche “interesse” e “capitale”: quindi si può intendere “vi parlerò dell’interesse e non del capitale”. Si serve poi di un’efficace metafora “solare”: il bene sta al mondo delle idee come il sole sta a quello sensibile. Con bene in sè, idea di bene si intende un bene assoluto e non relativo ad altre cose come le idee (l’idea di forza, ad esempio, è un bene relativo perchè può essere un bene come un male: dipende dall’uso e dalle circostanze).Il bene in sè è la conoscenza suprema e sublime a cui sono chiamati i filosofi-re, che devono seguire il lungo percorso di studi: esso è il top del percorso educativo: quando si ottiene la conoscenza del bene in sè si è chiamati a governare la città; ciò che porta ad orientare ogni cosa verso il bene, a renderla buona è proprio la conoscenza del bene in sè. Per molti aspetti esso coincide con l’idea del bello: la bellezza è il modo in cui si esterna il bene interno: è una concezione ampiamente diffusa in tutto il mondo greco. Secondo Platone il sole è la “ratio essendi” (la ragione di essere)e la “ratio cognoscendi” (la ragione di conoscere)nel mondo sensibile: è infatti grazie al sole che riusciamo a vedere il mondo sensibile; in sua assenza vediamo molto male ed è grazie a lui che conosciamo la realtà sensibile. Il sole consente poi la vita:dove non c’è il sole non c’è vita. Il bene riveste le stesse funzioni del sole, però nel mondo intellegibile delle idee, che in un certo senso sono anch’esse “ratio cognoscendi” e “ratio essendi”: l’idea fa sì che un cavallo sia tale e che lo si riconosca. Come detto, l’idea ha anche valenza assiologica (i cavalli mirano ad imitare l’idea di cavallo) ed è bene aggiungere di “unità della molteplicità”: i cavalli sono tantissimi, ma l’idea di cavallo è unica e la si può definire “stampo” dei cavalli. Il bene in sè, oltre a quelle del sole, svolge le funzioni anche delle idee: risulta quindi inesatto definirlo idea: è una idea delle idee, una super-idea che si trova ad un livello superiore delle idee e che riveste funzioni analoghe a quelle delle idee sul mondo sensibile, ma sulle idee a stesse. Le idee sono unità della molteplicità, ma tuttavia sono tante: quindi si può fare lo stesso discorso che facevamo per le funzioni delle idee sul mondo sensibile; esse dovranno avere qualcosa in comune tra di loro. Esse rappresentano il bene per ciascuna categoria, il punto cui devono mirare i componenti di ogni “classe”: le idee tendono ad essere il bene per la loro categoria: l’idea di uomo è il punto cui tutti miriamo: le idee fanno quindi riferimento al bene in sè, che è quindi un principio supremo, una super-idea. Esso svolge le stesse funzioni che le idee svolgono nel mondo sensibile, ma sulle idee stesse: ce le renderà conoscibili (conosco un’idea perchè è il bene della sua categoria),le farà esistere ( esistono nella misura in cui sono il bene della loro categoria, partecipano al bene). L’idea del bene sarà anche l’unità della molteplicità delle idee,che sono innumerevoli, pur essendo il solo modello per ogni categoria. Abbiamo detto che a volte,al posto di bene in sè, troviamo “uno”,”misura”…Abbiamo anche già parlato di quella volta che Platone tenne la conferenza sul bene parlando di matematica: dunque l'”uno” ben si riallaccia. Ma che cos’era il bene in sè? Per Platone esso è unità, armonia, ordine, misura, unità…In altri dialoghi parla del bene in sè, del vertice della realtà,come coppia di principi, o meglio come principio bipolare: al vertice della realtà ci sarebbero dunque l'”uno” e la “diade indefinita”. L'”uno” è l’unità, la diade fa riferimento al 2, quasi all’idea di 2: Platone col 2 vuole chiaramente indicare la negazione dell’unità, suggerendo il principio della molteplicità o almeno un primo passo verso di essa. Con il bene in sè (in greco “katà auton”)sta pian piano rivelandoci l’esistenza di un 5° livello, principio supremo della realtà. La dottrina delle idee serve a spiegare perchè, in fin dei conti, le cose sono buone, o meglio le idee sono buone: il mondo sensibile cerca di imitare la bontà delle idee, ma con scarsi risultati. Abbiamo fin’ora detto che le imitazioni risultano imperfette: è un’ipotesi molto vaga. E’ il momento di spiegare perchè le cose non sono perfettamente buone: bisogna o ammettere un altro principio o ammettere la bipolarità del principio: accanto all'”uno” (il bene vero e proprio)c’è la diade, la molteplicità concettuale che crea disordine. Cerchiamo di ritracciare lo schema già trattato in precedenza, però più corretto:
E’ una gerarchia ontologica: più si sale e più cresce il tasso di essere perchè si ha esistenza sempre più forte: l’idea di cavallo non muore, il cavallo sì. Il punto di partenza, puramente teorico, addirittura sotto il livello delle immagini-imitazioni, è il non essere, poi troviamo l’essere pieno delle idee; il bene in sè, però, per Platone è per “dignità e per potenza” superiore all’essere: se le idee sono l’essere ciò che le motiva (il bene in sè) non può essere essere. Di fronte a questa affermazione di Socrate (ricordiamoci che a parlare è lui, con parole platoniche)l’interlocutore del dialogo esclama con stupore “Oddio!”. In realtà esclama “per Apollo”. Un interprete ha avanzato un’ipotesi: dato che è un pezzo di dialogo particolarmente allusivo egli ha ritenuto che sotto l’espressione “Apollo” (la divinità del sole, già qui ci può essere un collegamento alla proporzione precedente)si possa leggere “a” (alfa privativa) e “pollos”,che significherebbe non molteplice. Effettuando questa affermazione non ci dice tanto ciò che il principio supremo è ,quanto piuttosto ciò che non è (molteplice).Il bene risulta quindi coglibile con qualcosa che sta oltre alla conoscenza: se i livelli della conoscenza corrispondono all’essere e il non essere non è conoscibile, man mano che cresce il tasso di essere cresce il tasso di conoscibilità: ma il bene in sè è sopra, al di là dell’essere e quindi ha una conoscibilità totalmente fuori dal normale. Platone stesso ci dice che è una conoscenza extra-razionale.
La conoscenza non è nient’altro che un tentativo del soggetto di arrivare all’oggetto o dell’oggetto di arrivare al soggetto: limitiamoci a dire che è un tentativo di unione tra soggetto ed oggetto. Se si sale dalla parte del soggetto, di pari passo si sale da quella dell’oggetto: crescono di pari passo. Paradossalmente ,però, l’identificazione tra soggetto e oggetto implica l’inconoscibilità: per conoscere ci deve essere un soggetto che compie l’azione ed un oggetto che viene conosciuto: se vengono a mancare, manca di conseguenza anche la conoscibilità. Il bene in sè si trova esattamente nel punto di incontro tra soggetto ed oggetto: Platone afferma che la conoscenza del bene in sè sia un’esperienza mistica dove però è indispensabile la ragione; la si potrebbe tranquillamente definire una mistica di superamento della ragione. Platone dice poi di voler descrivere la nostra situazione di uomini, di come siamo e di come il nostro destino può cambiare. Si serve qui del celeberrimo mito della caverna, forse il più famoso mito platonico, dove emerge tutta la sua filosofia:
Descrive una caverna profonda stretta ed in pendenza ,simile ad un vicolo cieco. Sul fondo ci sono gli uomini, che sono nati e hanno sempre vissuto lì; essi sono seduti ed incatenati, rivolti verso la parete della caverna: non possono liberarsi nè uscire nè vedere quel che succede all’esterno. Fuori dalla caverna vi è un mondo normalissimo: piante, alberi, laghi, il sole, le stelle…Però prima di tutto questo, proprio all’entrata della caverna, c’è un muro dietro il quale ci sono persone che portano oggetti sulla testa: da dietro il muro spuntano solo gli oggetti che trasportano e non le persone: è un pò come il teatro dei burattini,come afferma Platone stesso. Poi c’è un gran fuoco, che fornisce un’illuminazione differente rispetto a quella del sole. Questa è l’immagine di cui si serve Platone per descrivere la nostra situazione e per comprendere occorre osservare una proporzione di tipo A : B = B : C La caverna sta al mondo esterno (i fiori, gli alberi…) così come nella realtà il mondo esterno sta al mondo delle idee: nell’immagine il mondo esterno rappresenta però quello ideale tant’è che le cose riflesse nel lago rappresentano i numeri e non le immagini empiriche riflesse. Si vuole illustrare la differenza di vita nel mondo sensibile rispetto a quella nel mondo intellegibile .Noi siamo come questi uomini nella caverna, costretti a fissare lo sguardo sul fondo, che svolge la funzioni di schermo: su di esso si proiettano le immagini degli oggetti portati dietro il muro. La luce del fuoco, meno potente di quella solare, illumina e proietta questo mondo semi-vero. Gli uomini della caverna scambieranno le ombre proiettate sul fondo per verità, così come le voci degli uomini dietro il muro: in realtà è solo l’eco delle voci reali. Gli uomini della caverna avranno un sapere basato su immagini e passeranno il tempo a misurarsi a chi è più bravo nel cogliere le ombre riflesse, nell’indovinare quale sarà la sequenza: è l’unica forma di sapere a loro disposizione ed il più bravo sarà colui il quale riuscirà a riconoscere tutte le ombre. Supponiamo che uno degli uomini incatenati riesca a liberarsi: subito si volterebbe e comincerebbe a vedere fuori gli oggetti portati da dietro il muro non più riflessi sul fondo della caverna. Poi comincerà ad uscire ma sarà piuttosto riluttante perchè infastidito dalla luce alla quale era desueto: quando finalmente uscirà si sentirà completamente smarrito e disorientato. Comincerà a guardare indirettamente la luce solare:ad esempio la osserverà riflessa su uno specchio d’acqua. Man mano che la vista si abitua guarda gli oggetti veri: gli alberi, i fiori…In un secondo tempo le stelle e poi riuscirà perfino a vedere il sole. Chiaramente vi sono chiare allusioni a varie dottrine platoniche: evidente risulta l’allusione ai 5 livelli di conoscenza; le immagini proiettate sul fondo della caverna sono l’eikasia la capacità di cogliere le realtà empiriche riflesse, grazie al fuoco che rende visibili questi oggetti “artificiali”. Gli oggetti artificiali che portano dietro il muro sono la pistis,il mondo sensibile vero e proprio. Curioso è che l’atto di voltarsi da parte degli uomini nella caverna venga espresso con la parola “convertirsi”: è l’atto fondamentale per il cambiamento della propria prospettiva esistenziale. Le cose dietro il muro riflesse nello specchio d’acqua rappresentano la dianoia, gli enti matematici; gli alberi ed i fiori sono invece le idee vere e proprie, la noesis. Il sole, invece, è il bene in sè. Le stelle sono le idee più elevate (i numeri ideali…).L’uomo che è fuggito dalla caverna e ha visto tutto si trova in una situazionepiuttosto ambigua: da un lato vorrebbe rimanere all’aperto, dall’altro sente il bisogno di far uscire anche i suoi amici incatenati; alla fine decide di calarsi nella caverna e quando arriva in fondo non vede più niente, è come se accecato. Sostiene di essere tornato per condurli in un’altra realtà, ma essi lo deridono perchè non riesce più neppure a vedere le ombre riflesse sul fondo. Lui però continua a parlar loro del mondo esterno ma i suoi “amici” lo deridono e si arrabbiano e lo picchiano perfino. In realtà Platone vuole qui descrivere la storia di Socrate, un uomo che ha visto realtà superiori e ha cercato di farle conoscere agli altri che non hanno però accettato. Per quel che riguarda il fatto che l’uomo tornato nella caverna non riesca più a cogliere le realtà sensibili, possiamo portare ad esempio la vicenda del filosofo Talete, che guardando le stelle cadeva nei pozzi e veniva deriso per il fatto che voleva vedere le stelle lui che non vedeva neppure cosa c’era per terra. La liberazione dalle catene avviene (come la reminescenza) o per caso o grazie all’intervento di qualcuno. Comunque il mito rievoca pure il compito dei governanti, che una volta raggiunto il sapere devono per forza tornare nel mondo sensibile per governare. La fuoriuscita dalla caverna può anche essere metafora del lungo percorso educativo dei filosofi-re. Si può quindi definire correttamente il mito della caverna come una sorta di riassunto della filosofia platonica. Platone passa poi alla descrizione delle “decadenze” statali:a suo avviso la miglior forma di governo è quella dello stato ideale da lui tratteggiato, che è però inattuabile: essa potremmo identificarla con l’aristocrazia ,dove a detenere il potere sono coloro che risultano essere i più idonei. Tra gli stati attuabili Platone attribuisce il secondo posto (se non contiamo lo “stato secondo” delle “Leggi”) alla Timocrazia vale a dire il governo basato sul senso dell’onore corrispondente allo stato spartano nel suo periodo migliore. A lungo si è pensato che Platone avesse effettuato questa graduatoria di forme di governo a seconda del numero di governanti: più ce n’è peggio è. In realtà la differenza tra un governo e l’altro è solo la capacità dei governanti. La repubblica ideale di Platone è un’aristocrazia idealizzata che non si distingue solo per il numero esiguo di persone preposte al governo, ma anche per le loro abilità: la sequenza delle decadenze statali va vista in parallelo con quella delle decadenze umane: infatti si ha aristocrazia quando nell’anima prevale la parte razionale (l’auriga). Nella Timocrazia, invece, prevale la parte irascibile (il cavallo bianco),desideroso di farsi onore. Subito sotto alla Timocrazia troviamo l’oligarchia, il governo dei pochi che però non sono i migliori: si servono del loro potere per arricchirsi, accecati dalla cupidigia.
Ad un livello al di sotto troviamo la democrazia, che si viene ad instaurare quando la massa degli ignoranti diventa gelosa delle ricchezze degli oligarchici: il “demos” volge a suo favore i beni che prima erano dell’oligarchia.ai tempi di Platone la democrazia corrispondeva grosso modo con l’anarchia dove ciascuno faceva ciò che voleva e vigeva la maleducazione totale. Subito sotto troviamo la tirannide: dalla democrazia si passa alla tirannide quando la massa ignorante si fa abbindolare dai demagoghi che promettono sempre maggiore libertà. Essi dicono che tutti ce l’hanno con loro e che per dare al popolo la libertà promessa han bisogno di guardie del corpo e così nasce la tirannide. Platone arriva a dimostrare che il destino dell’uomo giusto sono la felicità e la giustizia. Egli è felice nella vita terrena perchè la giustizia lo appaga e gli rende l’anima sana. Nel libro 10° della “Repubblica” Platone afferma che dopo la morte per i giusti ci sarà ulteriore felicità, per gli ingiusti altra infelicità. Pur avendo già dimostrato che l’anima è eterna in modo razionale, Platone si serve poi di un mito, il celebre mito di Er ,un guerriero della Panfilia morto in battaglia. Il suo corpo viene raccolto e portato sul rogo (era un’usanza greca): proprio prima che gli diano fuoco si risveglia e racconta ciò che ha visto nell’aldilà, affermando che gli dei gli han concesso di ritornare sulla terra per raccontare agli altri uomini ciò che ha visto. Dice di aver visto 4 passaggi attraverso i quali le anime salgono nella dimensione ultraterrena, da un passaggio le buone, dall’altro le malvagie, e tramite i quali ritornano sulla terra. Infatti, dice, le anime buone finivano in una sorta di Paradiso dove godevano, le cattive in una sorta di Purgatorio (l’Inferno era un fatto raro, destinato solo ai più malvagi).I giusti ricevono premi per 1000 anni, i malvagi soffrono. Dopo questi 1000 anni le anime buone e quelle cattive si devono reincarnare. Esse si recano al cospetto delle 3 Moire che devono stabilire il loro destino. Le anime vengono radunate da una specie di araldo che distribuisce a caso dei numeri, seguendo una prassi che può ricordarci quella dei supermercati; infatti prende i numeri e li getta per aria ed ogni anima prende quello che le è caduto più vicino (questo sottolinea come nella nostra vita ci sia comunque una componente di casualità).Il numero serve per dare un ordine alle anime che devono scegliere in chi reincarnarsi; chiaramente chi ha il numero 1 è avvantaggiato perchè ha una scelta maggiore, ma deve comunque saper scegliere bene. Dunque c’è sì una componente di casualità, ma in fin dei conti la nostra vita ce la scegliamo noi:è vero che per chi nasce, per esempio, in una famiglia agiata è più facile essere onesti rispetto a chi nasce in una famiglia povera, oppure chi nasce in una famiglia onesta è avvantaggiato rispetto a chi nasce in una famiglia disonesta, ma tuttavia la nostra vita ce la scegliamo noi. Ma quelli che hanno numeri sfavorevoli non sono necessariamente svantaggiati perchè scelgono dopo: in primo luogo le possibilità di scelta che gli restano sono sempre tantissime, in secondo luogo chi è primo non sempre effettua buone scelte; Er racconta che nel suo caso chi scelse per primo scelse la tirannide che gli aveva fatto una buona impressione (infatti lassù si vedono le cose sotto forma di oggetti: forse la tirannide aveva dei bei colori,chi lo sa?).Costui, non appena si era accorto di ciò che comportava l’essere tiranno, non voleva più esserlo, ma era troppo tardi: le Moire gli danno l’incarico di tiranno e lo lanciano sulla terra, dopo averlo immerso nel fiume Lete perchè dimentichi (Er chiaramente non è stato immerso).Er dice che per ultima era arrivata l’anima di Ulisse e che, stanca della passata vita “movimentata”, scelse la vita di un comune cittadino. Platone fa notare che di solito chi veniva dal Paradiso tendeva ad effettuare scelte sbagliate, mentre chi veniva dal Purgatorio e aveva sofferto sceglieva bene. Infatti chi aveva vissuto per 1000 anni di beatitudine si era scordato di che cosa fosse la sofferenza. Quindi chi ha sofferto sceglie bene e sceglie una buona vita che lo porterà al Paradiso, mentre chi ha goduto sceglie male e dopo che ri-morirà finirà in Purgatorio. Pare quindi un circolo vizioso, ma in realtà Platone dice che il motivo per cui si sceglie una vita buona o una cattiva può derivare da doti naturali: ci sono infatti persone portate a comportarsi bene per inclinazione naturale: vi è anche chi ha conoscenze basate sulla doxa (l’opinione) e che può cogliere alte realtà, ma solo casualmente, senza riuscire a fornire motivazioni: costoro, che conducono una vita buona per caso, non radicata nella coscienza, si smontano facilmente nel Paradiso quando godono e finiranno per scegliere male. Chi ha invece raggiunto il bene in sè, la super-idea del bene, non cadrà mai nel male.
*brani ripresi ed elaborati da filosofico.net
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