Di Francesco Perfetti
La sala nella quale, poco dopo le 17 del 24 luglio 1943, ebbe inizio l’ultima riunione del Gran Consiglio del Fascismo dal 1939 non veniva più usata se non come stanza dove si sostava prima di essere ricevuti da Benito Mussolini nella sala del Mappamondo.
Quel pomeriggio, predisposta per una riunione destinata a passare alla storia, essa non aveva acquistato nulla in solennità: era male arredata con un tavolo in legno compensato a ferro di cavallo e sedie di brutta fattura di stile cinquecentesco. Al centro il tavolo del Duce, più alto e coperto, davanti, da un drappo di velluto grigio azzurro. I membri presenti erano ventotto e si accomodarono quattordici per lato. Ha raccontato uno di essi, Alberto De Stefani in un memoriale scritto a caldo e ora ritrovato e pubblicato con il titolo Gran Consiglio, ultima seduta (Le Lettere, Firenze) che nel fatidico pomeriggio del 24 luglio, entrando in quel luogo «da quattro anni senza voce», si percepiva in tutti «un’angoscia opprimente e negli occhi di taluno la trepidazione dell’imprevedibile». C’erano, insomma, agitazione e preoccupazione: «Ci sentivamo sperduti, eppure dominati da una necessità imperiosa, più forte di noi, che non si sapeva da dove venisse».
La convocazione del Gran Consiglio era giunta a sorpresa, perché non si credeva che Mussolini avrebbe acceduto alla richiesta. Qualche mese prima, un senatore, Ettore Rotigliano, aveva promosso una raccolta di firme per ottenere che venisse convocata una «seduta segreta» del Senato nella quale il Capo del Governo avrebbe dovuto riferire sulla situazione militare e politica, ma l’iniziativa non aveva avuto seguito, bloccata proprio da Mussolini. Adesso, invece, il Duce aveva accettato che venisse riunito il supremo organo del regime. Perché? È il primo dei tanti misteri che circondano lo svilupparsi della vicenda che avrebbe messo la pietra tombale sul regime. Mussolini era al corrente dei maneggi di Grandi, allora presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, e, probabilmente, anche delle manovre che, a diversi livelli, coinvolgevano la Corona, settori delle forze armate e ambienti dell’antifascismo e che trovavano alimento nella disastrosa situazione militare degli ultimi mesi. A ridosso della riunione, il 22 luglio, anzi, egli aveva persino visto in anteprima, una bozza, presentatagli dallo stesso Grandi, dell’ordine del giorno che questi avrebbe voluto mettere in votazione. Non è da escludere che Mussolini fosse convinto di poter mettere i gerarchi dissidenti con le spalle al muro coinvolgendoli nelle responsabilità della guerra e che, dopo tutto, ritenesse utile restituire al Re il supremo comando militare per scaricare su di lui il peso dei disastri militari. In realtà, però, l’ordine del giorno Grandi era assai più dirompente proprio per il fatto di essere dibattuto in un organo che, pur non essendo il Parlamento, ne era diventato di fatto un surrogato: finiva per essere una mozione di sfiducia nei confronti del Capo del Governo. Mussolini non se ne rese conto e non se ne resero conto neppure, con molta probabilità, molti di coloro che lo avevano sottoscritto. Esso offriva a Vittorio Emanuele III quel «pretesto costituzionale» che egli, con la sua pedanteria legalitaria, andava cercando da tempo. Il Re era ormai convinto della necessità di liquidare Mussolini. Questa idea era maturata dopo lo storico incontro di Feltre tra Mussolini e Hitler il 19 luglio 1943, ma era in gestazione da tempo, alimentata dai suggerimenti e dagli incontri con uomini politici della vecchia politica prefascista, da Vittorio Emanuele Orlando a Marcello Soleri fino a Ivanoe Bonomi, dalle pressioni di alcuni ambienti militari e dalle vellutate allusioni e dagli intrighi del ministro della Real Casa, il duca Pietro d’Acquarone. Proprio alla vigilia dell’ingresso dell’Italia in guerra, nel 1940, Vittorio Emanuele III aveva cercato, invano, grazie ai buoni uffici dello stesso d’Acquarone, di convincere Galeazzo Ciano a favorire il trapasso dei poteri attraverso una «soluzione morbida», che allora egli riteneva fosse accettabile anche dallo stesso Mussolini, fondata su una convocazione del Gran Consiglio che mettesse in minoranza il Duce.
Il comportamento del Re nei confronti di Grandi, alla vigilia del 25 luglio, fu cauto ma coerente. Negli incontri che ebbe con lui insistette sempre sulla necessità del «pretesto costituzionale» per poter intervenire e lo esortò ad «aver fiducia» nel suo sovrano. Grandi ne ricavò l’impressione di aver ottenuto «mano libera» per portare avanti il suo progetto che prevedeva non solo il ritorno allo Statuto e la fine della dittatura, ma anche la formazione di un governo presieduto da Caviglia con elementi tecnici e l’uscita immediata dell’Italia dal conflitto e l’apertura delle ostilità contro la Germania.
La seduta del Gran Consiglio durò a lungo – dalle 17 alle 2,30 circa del mattino successivo con una breve interruzione verso la mezzanotte ed ebbe momenti di tensione testimoniati dai ricordi dei protagonisti. Un verbale ne fu steso, il giorno dopo, presenti molti di coloro che approvarono l’o.d.g. Grandi, a casa di Federzoni ed è riportato in appendice al volume dello stesso Federzoni, Memorie di un condannato a morte (Le Lettere), scritto nel periodo della clandestinità dell’autore. Mussolini apparve, di volta in volta, battagliero o rassegnato. Avrebbe potuto contestare la «legittimità» della delibera del Gran Consiglio in questa materia, ma non lo fece. Si limitò a dire, al termine, che quella riunione aveva segnato la fine del regime. Perché? Un mistero, forse spiegabile con la convinzione che il Re lo avrebbe appoggiato o che si sarebbe limitato ad accettare il comando supremo delle forze armate lasciandolo al suo posto. Le cose non andarono così. Il Re lo fece arrestare. E fu, davvero, la fine del fascismo.
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