Di Martino Mazzonis
Il governo turco ha annunciato che l’improbabile accordo con l’Europa per la ripresa in carico di rifugiati e migranti entrerà in vigore lunedì prossimo. Le notizie sulle nuove strade prese da chi cerca di fuggire dalla guerra – o chi emigra per ragioni economiche, una minoranza intorno al 20% a giudicare dai dati che conosciamo – circolano già da un paio di giorni. Lo avevano detto e scritto tutti: la Libia tornerà ad essere il porto di partenza per le barche e barconi che trasportano persone verso l’Europa. Un’altra strada possibile è quella che passa per l’Albania. Fatto sta che i numeri del Viminale già indicano un aumento degli ingressi a partire dall’inizio dell’anno. E che con la Libia difficilmente si potrà mettere mano a un accordo come quello turco, che a Tripoli si sarà anche insediato un governo riconosciuto, ma certo definire quello un Paese sicuro è difficile.
A proposito di accordo con la Turchia, oggi Amnesty International pubblica un rapporto che racconta come nei mesi passati, le autorità di Ankara abbiano rispedito in Siria un sacco di gente. Leggiamo il rapporto:
Una ricerca condotta nelle province al confine meridionale della Turchia suggerisce che le autorità turche sono state e di espellere i gruppi composti di circa 100 persone, uomini, donne e bambini su una base quasi giornaliera a partire da metà gennaio. In tre giorni la settimana scorsa, i ricercatori di Amnesty International hanno raccolto molte testimonianze sulle espulsioni su larga scala nella provincia di Hatay, a conferma di una pratica che è un segreto di Pulcinella nella regione.
È inutile sottolineare come tutti i rimpatri siano illegali e come, proprio l’atteggiamento della autorità turche sia una delle basi che rendono critico l’accordo raggiunto con l’Unione europea. «Nella loro disperazione per sigillare i confini, i leader europei hanno deliberatamente scelto di ignorare il più semplice dei fatti: la Turchia non è un paese sicuro per i rifugiati siriani ed è sempre meno sicuro di giorno in giorno», ha dichiarato John Dalhuisen, direttore di Amnesty International per l’Europa e l’Asia centrale. I siriani espulsi sono sia richiedenti asilo già registrati che persone che hanno appena passato il confine e che, di conseguenza, non hanno ancora fatto in tempo a fare domanda. Le autorità turche, nota l’organizzazione internazionale, hanno anche rallentato le operazioni di registrazione dei nuovi entrati. Ad alcuni è stato detto che non è più possibile farlo.
La situazione al confine turco-siriano è catastrofica, le condizioni igienico-sanitarie pessime, mentre la nuova politica di Ankara è quella dei confini chiusi. Stiamo assistendo alla creazione di una Fortezza Turchia, commenta Amnesty. Un paradosso: Ankara viene coinvolta nelle politiche europee perché si faccia carico della crisi. L’accordo è largamente criticabile, ma se applicato in queste condizioni, ovvero negando l’accesso alla domanda di asilo e con espulsioni forzate, appare come un doppio paradosso: l’Europa paga perché Ankara si riprenda un po’ di migranti e richiedenti asilo non siriani, la Turchia ottiene di mandare richiedenti asilo siriani in Europa, ma al contempo fa in modo di non doverne accogliere altri (o meglio, cerca di accoglierne il numero più basso possibile).
Intanto, sia al confine turco-siriano, dove nel raggio di 20 chilometri stazionano circa 200mila persone, che a Lesbos, quel che serve sono interventi di emergenza e di assistenza: le organizzazioni internazionali hanno smesso di cooperare con le autorità greche dopo che, in seguito all’accordo con la Turchia, i centri di accoglienza sono diventati centri di detenzione per persone in attesa di essere rispedite oltre l’Egeo. L’accordo che entra in vigore lunedì, insomma, era il cerotto sbagliato, sia perché non ha niente di umanitario, sia perché non risolve in nessun modo il problema: c’è una crisi epocale in atto e i governi e la società europei devono farsene carico.
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