TAKI183, tutto ebbe iniziò così. Taki era un’abbreviazione di Demetaki, ovvero il nome di origine greca Demetrios, mentre il numero che seguiva era l’indirizzo al quale il giovane viveva, 183rd Street, Washington Heights. Questo ragazzino, che si guadagnava qualche dollaro facendo il corriere in bicicletta, tappezzò letteralmente i muri di New York con il suo nome scritto con un pennarello. Non una vera e propria firma ma quello che in seguito prese il nome di tag. Grosso modo così, l’arte dei graffiti fece la sua prima apparizione nei primi anni Settanta.
Circa quarant’anni più tardi e più precisamente il primo ottobre 2013, dalle parti di Chinatown su un muro decisamente anonimo, comparve un’opera di street art che, d’un tratto, mobilitò folle da tutta la città. Banksy, probabilmente il writer più famoso al mondo, era sbarcato a New York e lì, per tutto il mese, avrebbe svelato una nuova opera ogni giorno, in angoli inaspettati e imprevedibili della città. Ma se quel muro era solo il primo di una lunga lista e questo evento solo una delle tante trovate del genio di Bristol, l’intera operazione rappresentava invece una sorta di manifesto di ciò che la street art era ormai divenuta. Del resto la grande mela, che come abbiamo raccontato diede i natali a questa forma d’arte, era il luogo ideale per sancire l’inizio della nuova era. E sì, perché tra questi due precisi momenti e questi due nomi, Taki183 e Banksy, la street art come oggi la intendiamo è nata, si è evoluta e, in un certo senso, è morta.
Se in origine le strade e i muri erano semplicemente lo scenario, o meglio, la cornice di un graffito illegale, oggi la città ha iniziato a modificare le proprie dinamiche sia sociologiche che urbane sfruttando il lavoro degli artisti quasi al pari di quello dei progettisti. Del resto se una delle colpe spesso rimproverate all’architettura contemporanea è quella di essere solo un accattivante esercizio “di facciata”, si deve ammettere che l’arte urbana che di fatto vive proprio sugli edifici possa essere considerata anche attraverso la sua componente urbanistico-architettonica. Ma come può un’opera, per importante che sia, influenzare addirittura l’evoluzione urbana di una metropoli? Bisogna chiarire cosa si intende quando si dice street art. Oggigiorno quando ci si riferisce alla street art spesso non si intende più quel movimento di controcultura underground fortemente osteggiato dall’opinione pubblica, al contrario questa forma d’arte è ormai diventata quasi ovunque un’espressione consolidata del mainstream ed è anzi sempre più spesso una risorsa alla quale le autorità stesse ricorrono. E poi c’è l’aspetto economico. Non appena infatti le quotazioni di questi artisti hanno iniziato a crescere, hanno iniziato anche ad influenzare il mercato del Real Estate.
Facciamo degli esempi. Proprio in questi ultimi giorni tutti i giornali hanno raccontato il controverso caso bolognese di Blu, uno degli street artist più importanti al mondo e originario proprio del capoluogo emiliano, che ha cancellato alcune delle sue opere nella città, per protestare contro la mercificazione dell’arte. Lo stesso artista un paio di anni fa aveva compiuto un gesto simile, quella volta a Berlino e più precisamente a Kreuzberg dove si era reso protagonista di un’analoga “eutanasia artistica”. Il motivo era anche allora la gentrificazione in atto in quell’area. Il quartiere, e in particolare gli edifici su cui aveva realizzato le sue grandi opere, originariamente occupati ed epicentro della cultura underground cittadina, erano diventati (in parte proprio grazie alle opere dell’artista) di gran moda col passare del tempo e stavano per essere integrati in una massiccia operazione immobiliare speculativa. Blu, allora come oggi, coerente con la sua feroce e sempre più isolata critica per lo sfruttamento dell’arte e della cultura con finalità capitalistiche, ha sacrificato la sua arte in nome della sua ideologia. Ovviamente questo gesto è stato tanto osannato quanto negativamente additato.
In effetti osservando la vertiginosa ascesa delle quotazioni della street art negli ultimi quindici anni più di qualcuno tra galleristi e speculatori deve essersi sfregato le mani immaginando le grandi opportunità generate da queste opere che comparivano spesso in zone degradate, su muri che fino al giorno prima rispondevano alle normali quotazioni di mercato della zona ma che improvvisamente, la mattina dopo, diventavano preziosissimi. Ma se quello berlinese fu un episodio non troppo noto, non si puù dire lo stesso di quanto avvenne a New York il 19 novembre 2014. Durante la notte un squadra di operai cancellò, coprendoli di vernice bianca, circa 19.000 metri quadri di opere eseguite da alcuni degli artisti più importanti dell’ultimo ventennio. 5Pointz, questo il nome di quel luogo, era stata fino ad allora la Mecca della street art, una sorta di antologia spontanea di quanto di meglio ci fosse in circolazione, una palestra dove tutti, ma proprio tutti, sognavano di misurarsi.
Dal punto di vista prettamente catastale si trattava in realtà di una vecchia fabbrica a ridosso della linea sopraelevata della metropolitana, a pochi passi da dove oggi sorge il PS1, succursale “underground” del MoMA. Un punto strategico che permetteva alle opere la massima visibilità e agli artisti stessi offriva uno spazio in cui realizzare i propri atelier. La proprietà ha tollerato e persino incoraggiato questa situazione per oltre trent’anni. Poi all’improvviso, nel 2013 decise, avendone tutto il diritto, di realizzare un condominio di lusso. Purtroppo per loro però, negli anni, le pareti di quel fabbricato fatiscente, la cui demolizione un tempo non avrebbe scandalizzato nessuno, erano divenute la più importante testimonianza di arte urbana al mondo. Iniziò allora un ardito tira e molla tra i difensori dell’arte (tra cui Banksy che fece un appello) e coloro i quali avrebbero voluto sacrificarla alla ragion di stato; sta di fatto che per uscire da questa impasse i proprietari cancellarono, notte tempo, tutti i graffiti cosicché la demolizione poi sarebbe stata una pura formalità.
Paradossalmente la street art, considerata un tempo espressione del degrado, viene oggi cancellata perché responsabile di far schizzare alle stelle il valore degli immobili sulla quale viene realizzata. La catarsi si può dire conclusa, anzi ribaltata. Da quando questa tendenza si è affermata non ha ovviamente risparmiato Roma. La città eterna è stata da sempre uno degli epicentri europei della street art ma anche qui da noi si è ben presto capito che con questa forma espressiva ormai largamente accettata ed apprezzata si può anche ottenere un discreto tornaconto. Quando questo fu chiaro, persino la politica, notoriamente espressione del establishment più conservatore e reazionario, cavalcò il carro della street art dimenticando che solo fino a poco tempo prima l’aveva considerata una piaga da debellare.
Bisogna essere abili a capire in che direzione tira il vento. Fu così che, giusto un anno, fa l’ex sindaco di Roma, Ignazio Marino, incapace di risolvere la questione delle Torri delle Finanze dell’Eur pensò bene di rivolgersi proprio agli street artist. In origine le torri erano uno splendido complesso di grattacieli (nell’accezione romana del termine, si intende) modernisti ideati negli anni Sessanta dall’architetto Giuseppe Ligini. Ai tempi della giunta Veltroni ne fu decisa, incredibilmente, la demolizione per rimpiazzarli con un complesso di appartamenti di lusso. Iniziati i lavori ci si accorse che l’operazione sarebbe stata un fallimento e tutto si fermò lasciando tristemente in piedi solo la struttura in cemento armato delle vecchie torri. Eppure quegli scheletri non potevano rimanere in quello stato, tanto più che accanto stava (a dire il vero sta ancora) nascendo la Nuvola di Fuksas e per non scoraggiare eventuali investitori disposti a finanziare l’ambizioso centro congressi occorreva nascondere quei ruderi. Così Marino ebbe un lampo di genio e dichiarò orgogliosamente “copriremo quegli scheletri con delle opere di street art”. Del resto l’operazione avrebbe avuto un costo irrisorio consentendo al tempo stesso un ritorno d’immagine clamoroso. Le cose andarono diversamente, la giunta Marino si sgretolò di lì a poco e si offrì quello che rimaneva delle torri ad una nota azienda con l’impegno di ricostruirle ex novo per farne la propria nuova sede. Il sindaco intanto però c’aveva provato.
A ben vedere però quello economico, seppur dominante, non è l’unico effetto per così dire collaterale legato all’arte urbana un secondo, ancor più sorprendente sviluppo, lo abbiamo apprezzato, su larga scala, proprio a New York durante il mese in cui Banksy quotidianamente scopriva una sua nuova opera. In quei giorni i suoi followers accorrevano nei posti più disparati della città per fotografare i lavori del genio di Bristol prima che venissero rimossi dalle autorità o rubate da personaggi senza scrupoli; In pochi giorni la cosa raggiunse proporzioni ragguardevoli, dando origine ad una sorta di flusso migratorio che attraversava schizofrenico i Five boroughs portando la gente ad inoltrarsi in luoghi della città ai quali probabilmente non avrebbero mai pensato di avvicinarsi fino ad allora. Il risultato è stata una scoperta urbana e soprattutto un confronto sociale. Del resto anche la sociologia ha trovato una definizione per questa nuova tendenza coniando l’acronimo FOMO che sta per Fear Of Missing Out.
Pensando a questo si può affermare che anche a Roma, nella millenaria città museo, sia successo qualcosa di simile da quando, grazie soprattutto all’impegno di alcuni galleristi, è stato realizzato una sorta di percorso a cielo aperto che finalmente attira il turista anche al di fuori del canonico tour archeologico/barocco toccando quartieri come Ostiense Garbatella e persino Tor Marancia, un luogo dal quale anche molti romani si tenevano alla larga.
FONTE E ARTICOLO COMPLETO:http://www.lavocedinewyork.com/arts/arte-e-design/2016/03/17/la-street-art-cambiato-le-regole-le-citta/
FOTO:https://londonist.com
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