Di Rosalba Miceli http://www.lastampa.it/
Uno dei temi su cui si arrovellava lo psicoanalista tedesco di origine ebraica Erich Fromm, sollevato drammaticamente da quanto era avvenuto nei campi di concentramento nazisti, è come individui apparentemente normali, messi in condizioni idonee, possono diventare dei perversi, dei sadici, degli aguzzini.
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Altri, invece, sostiene Fromm, posti nelle medesime condizioni, non diventeranno mai dei perversi, non faranno mai del male (Fromm, L’amore per la vita). Cosa differenzia questi soggetti dai primi? E quali condizioni favoriscono l’espressione di una aggressività e distruttività latente? La psicoanalisi attuale, orientata in senso relazionale, e la psicologia sociale, stanno ancora cercando delle risposte.
Gli studi attuali prendono in esame anche un altro tipo di violenze, che si consumano negli ambienti tipici della vita quotidiana: individui dall’aria insospettabile, bravi padri e madri di famiglia, piacevoli compagni che tengono conto dell’opinione dei vicini, possono reprimere una pulsione che non sarebbe socialmente accettata, talvolta si abbandonano a vere e proprie torture psicologiche nei confronti di colleghi di lavoro più vulnerabili, o viceversa, individui rispettabili sul posto di lavoro vivono situazioni familiari cariche di violenza, di odio, di vendetta. O ancora, cittadini impeccabili, benevoli con i bambini e gli animali, sono tuttavia in grado di manifestare aperta ostilità ed aggressività nei confronti dello straniero. Si tratta di un deficit di empatia o la forza di certe situazioni è tale da condizionare i comportamenti dell’individuo? Per spiegare questi casi, e anche la “banalità del male” emersa dai racconti degli imputati al processo di Norimberga, l’orrore dei campi di concentramento a cui lui stesso è sfuggito fortunosamente da bambino, ma che hanno ingoiato la sua famiglia, lo psicoanalista francese Boris Cyrulnik parla di perversione “congiunturale”, diversa dalla perversione “strutturale” in quanto non sembra, almeno apparentemente, connessa ad un particolare percorso evolutivo: il perverso congiunturale manifesta una “serena” disposizione a fare del male solo quando ne ha l’occasione. Si può intervenire, modificandola, su una situazione che esercita un effetto di pervertimento? Cyrulnik propone di agire sui discorsi culturali che permeano l’ambiente “malato”, incrementando la partecipazione attiva dei soggetti alla cultura, ai dibattiti, alle decisioni politiche. “Si vede, allora, che molti individui si meravigliano dei propri comportamenti precedenti o di ciò in cui hanno creduto” (Boris Cyrulnik, Autobiografia di uno spaventapasseri, Raffaello Cortina Editore). Al contrario, il perverso “strutturale”, con chiare carenze nello sviluppo emotivo, risponderà soltanto in modo perverso, qualunque sia l’ambiente relazionale o la situazione. Più drastica la posizione espressa da Phil Zimbardo, una delle figure più autorevoli della psicologia sociale contemporanea, già presidente dell’American Psychological Association, attualmente professore emerito alla Stanford University, e riproposta recentemente da Piero Bocchiaro, psicologo sociale formatosi alla Stanford University, autore del saggio “Psicologia del male” (Editori Laterza): chiunque, in particolari circostanze, può infierire contro un altro essere umano. “Compiere il male - sottolinea Zimbardo nella prefazione al saggio di Bocchiaro - vuol dire attuare in maniera intenzionale un comportamento che danneggi, oltraggi, umili, deumanizzi o distrugga una o più persone innocenti, mentre restano escluse da questa definizione le condotte che procurano sofferenza o morte in maniera accidentale. L’ipotesi di Zimbardo che annulla o quantomeno riduce lo scarto tra i buoni ed i cattivi, tra il bene ed il male, è stata testata in un famoso esperimento: nell’estate del 1971 Zimbardo, allora professore di psicologia alla Stanford University, realizzò l’Esperimento carcerario di Stanford, rivelando come un contesto carcerario possa innescare comportamenti riprovevoli nei soggetti coinvolti. Zimbardo si prefiggeva di indagare il comportamento umano in un ambiente sociale in cui gli individui sono definiti soltanto dal gruppo di appartenenza. L'esperimento prevedeva l'assegnazione, ai volontari che accettarono di parteciparvi, dei ruoli di guardie e prigionieri all'interno di un carcere simulato nel seminterrato dell’Istituto di psicologia dell’Università di Stanford, a Palo Alto. Fra 75 studenti universitari che risposero a un annuncio, furono scelti 24 maschi, di ceto medio, fra i più equilibrati e meno inclini a manifestare comportamenti devianti; i giovani furono poi assegnati casualmente al gruppo dei detenuti o a quello delle guardie. I prigionieri portavano ampie divise sulle quali era applicato un numero, mentre le guardie indossavano uniformi color kaki, occhiali da sole che impedivano ai prigionieri di coglierne lo sguardo. I risultati di questo esperimento sono andati oltre le previsioni degli sperimentatori, rivelandosi particolarmente drammatici: i volontari che assumevano il ruolo di prigionieri tendevano ad identificarsi automaticamente nel gruppo dei prigionieri, in contrapposizione al gruppo delle guardie, mettendo in secondo piano o escludendo del tutto altri tipi di somiglianze e differenze. Dopo due giorni si verificarono i primi episodi di violenza: i detenuti si strapparono le divise di dosso e barricandosi all’interno delle celle, presero a inveire contro le guardie; queste ultime risposero alle ingiurie cercando di intimidirli e umiliarli in vario modo; al quinto giorno i prigionieri mostravano segni evidenti di disagio emotivo e passività mentre il comportamento delle guardie scivolava pericolosamente verso il sadismo. A questo punto i ricercatori interruppero l'esperimento. Assumere un ruolo di controllo sugli altri nell’ambito di una istituzione come quella del carcere, induce ad accettare le regole dell'istituzione come unico valore, indebolisce il senso di responsabilità personale riguardo alle conseguenze delle proprie azioni, alimentando l’espressione di impulsi antisociali. Zimbardo utilizza l’Esperimento carcerario di Stanford come modello per comprendere le dinamiche che possono verificarsi in altre situazioni - anche un innocuo ambiente lavorativo come un ufficio può trasformarsi in una prigione opprimente, con vittime designate da una parte e kapò dall’altra - e suggerisce la necessità di un cambiamento di paradigma dal modello medico prevalente focalizzato sull’individuo che compie il male verso una maggiore attenzione alle condizioni del sistema che supporta e mantiene l’abitudine al male. L'importanza degli studi di Zimbardo è stata riproposta dalle tristi vicende del carcere di Abu Graib. Era l’aprile del 2004 quando i media di tutto il mondo diffusero le immagini della galleria di orrori di cui si erano resi responsabili i soldati americani nei confronti dei prigionieri iracheni che vi erano detenuti. Nel 2004, Zimbardo ha testimoniato presso la corte marziale in difesa del sergente Ivan “Chip” Frederick, una guardia della prigione di Abu Graib, sostenendo che la pena relativa a Frederick doveva essere valutata tenendo conto delle pressioni ambientali subite dal militare, con le aggravanti di un addestramento e di una supervisione molto limitati (a Frederick è stata inflitta una pena di 8 anni). Tra le variabili situazionali che innescano un processo di “deindividuazione”, l’effetto “folla” è tra i più sconvolgenti: una folla inferocita o in preda al panico può divenire incontrollabile, scavalcando argini, pressando, calpestando qualunque cosa, qualunque persona si trovi sul suo cammino. “La massa psicologica è una creatura provvisoria, composta di elementi eterogenei saldati insieme per un istante, esattamente come le cellule di un corpo vivente formano, riunendosi, un essere nuovo con caratteristiche ben diverse da quelle che ciascuna di queste cellule possiede”, scriveva lo psicologo e sociologo francese Gustave Le Bon nel saggio del 1895 “Psicologia delle folle”. Gli esempi non mancano: dalla tragedia dell’Heysel, il massacro perpetrato dagli hooligan alla finale della Coppa dei Campioni dell’85, alla tragedia più recente, avvenuta il 24 luglio scorso al festival techno di Duisburg dove la micidiale ressa dei partecipanti divenuti una massa fisica (e forse anche psicologica), ha provocato una ventina di morti e centinaia di feriti. Ammesso che il male agisca fuori e dentro di noi, cosa sappiamo del bene? Alla banalità del male, Zimbardo oppone la ordinarietà del bene. Gli eroi sono in genere eroi della vita quotidiana, i quali in particolari situazioni si coinvolgono in azioni straordinarie. Osserva Zimbardo, si tratta di individui ancora poco noti alla psicologia, che preferisce indagare menti criminali, intriganti maggiormente l’immaginario comune: è indubbiamente più facile identificarsi con l’aggressore, con colui che esercita un potere sull’altro, mentre colui che fa del bene ispira anche una certa diffidenza, come se l’attenzione per l’altro fosse già di per sé sospettabile. Ma siamo tutti eroi pronti a fare del bene quando se presenta l’occasione? O essere dalla parte del prossimo richiede particolari competenze emozionali, un training emotivo che porta a riconoscere una comune vulnerabilità , una “conversione al bene”, la scelta consapevole tra diverse e a volte contrastanti opzioni? FONTE:http://www.lastampa.it/2010/07/28/scienza/galassiamente/psicologia-del-bene-e-del-male-chi-sono-i-buoni-e-chi-i-cattivi-1yadHOGrG5aQgElww4UDOP/pagina.html VISTO ANCHE SU http://www.psicologoamico.it/esteso.asp?esteso=1611 FOTO:http://ilpensierocristiano.blogspot.it |
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