Di Antonella Napoli
La reazione del mondo sciita all'esecuzione dello sceicco e imam Nimr al Nimr e di altri 46 detenuti, condannati a morte per reati di terrorismo in Arabia Saudita, non si è fatta attendere. L'attacco all'ambasciata di Riad a Teheran e la rottura delle relazioni diplomatiche tra l'Iran e il regno di Salman bin Abdulaziz al Saud sono le prime conseguenze di un'azione, azzardata ma calcolata, che ha dato il via a un effetto domino nel mondo sunnita che rischia di compromettere il già precario equilibrio nella regione e con esso il processo di negoziazione per una soluzione alla crisi in Siria.
Dopo Riad anche Sudan, Emirati Arabi e Bahrein hanno seguilto l'iniziativa saudita intimando ai diplomatici iraniani di lasciare il proprio territorio e ritirando le loro rappresentanze. Anche la Coalizione nazionale delle forze dell'opposizione e della rivoluzione siriana ha preso una dura posizione chiedendo a tutti i Paesi arabi di tagliare i rapporti diplomatici con Teheran seguendo l'esempio di Riad.
E non sarà questo l'ultimo sviluppo delle tensioni crescenti tra i due giganti del Golfo, la sunnita Arabia Saudita e l'Iran sciita: l'uccisione di al Nimr e l'attacco incendiario all'ambasciata hanno tracciato un definitivo spartiacque. Particolarmente significative le dichiarazioni ufficiali con le quali il Bahrein ha annunciato la fine dei rapporti con gli iraniani, sottolineando che la decisione era stata innescata dal "codardo" attentato contro la diplomazia saudita e "dalle crescenti e flagranti ingerenze" dell'Iran negli affari interni dei Paesi del Golfo.
I governanti bahreiniti sono legati a doppio filo a Riad. Nel 2011 solo grazie all'intervento armato delle truppe saudite venne domata una rivolta della maggioranza sciita a Manama. La mossa del Bahrein sarà probabilmente seguita dalle altre petromonarchie sunnite e membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo, acuendo sempre più la tensione tra le due grandi famiglie dell'Islam.
Tra i Paesi del golfo Abu Dhabi, per il momento, ha preferito una misura meno drastica di quella presa da Riad, Khartoum e Manama, 'limitandosi' a ridurre il livello delle relazioni diplomatiche e il personale nell'ambasciata. Il braccio di ferro per la conquista della leadership regionale è dunque a un punto di svolta. Lo scontro non è solo diplomatico, ma affonda le proprie radici in uno scisma secolare che infiamma ancora oggi le folle di musulmani. Un odio che spinge i fedeli ai precetti islamici ad annientarsi a vicenda e in alcuni casi, come a Riad, a dar corso a esecuzioni di massa giustificandole come "condanna per terrorismo".
Da quando re Salman bin Abdulaziz Al Saud ha assunto il potere sono state decapitare quasi il doppio delle persone rispetto al 2014, 158 contro le 90 dell'anno precedente. La maggior parte sciiti. Il record degli ultimi vent'anni. Tra i primi atti di Salman, non a caso, la nomina di un nuovo e più intransigente ministro della Giustizia e la collocazione di funzionari rigorosi, a lui fedeli, in posizioni strategiche in tutta la burocrazia statale. Questi, come altri provvedimenti, non hanno sorpreso osservatori e analisti delle vicende saudite, la più autorevole candidata alla guida della regione, viste le difficoltà del mantenimento degli equilibri politici interni. Il precedente re, Abdullah, mostrava un'inclinazione, o quanto meno questa era l'immagine di sé che voleva far passare, di innovatore. Era riuscito a convincere molti dei suoi alleati occidentali di aver avviato un processo di riforme all'interno del medievale sistema sociale saudita. Ma in sostanza poco aveva era di fatto cambiato sotto la sua reggenza, tranne la concessione del voto alle donne e la possibilità di candidarsi dal 2015. E ancor meno muterà con il suo successore, la cui ascesa al trono è stata interpretata come un passo indietro, rispetto alla gestione del predecessore, anche nella gestione dei rapporti con il mondo sciita. Le azioni delle ultime ore ne sono l'evidente manifestazione. E il punto di non ritorno appare sempre più vicino.
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