Di Emanuele Rossi
Sabato manifestanti iraniani hanno saccheggiato e dato alle fiamme un edificio all’interno del compound che ospita l’ambasciata saudita a Teheran. Si è trattato, per molti osservatori, di una reazione di protesta dopo che l’Arabia Saudita aveva reso pubblica l’esecuzione di un importante chierico sciita.
I manifestanti, che si erano ammassati davanti all’ambasciata gridando slogan come “morte ai Saud” (i Saud sono i regnanti sauditi), sono riusciti a forzare i cancelli e hanno spaccato le finestre e rotto mobili di uno degli annessi all’edificio principale. Che è stato poi bruciato dal lancio di bottiglie incendiarie, prima che l’arrivo della polizia disperdesse la folla. Contemporaneamente anche il consolato saudita di Mashhad è stato preso d’assalto: una bandiera è stata strappata, ma la polizia è riuscita a fermare le proteste prima che succedessero fatti più gravi.
LE CONDANNE
Sabato mattina il ministero dell’Interno saudita aveva annunciato l’esecuzione della condanna a morte per 47 detenuti (una delle più grandi esecuzioni di massa, dopo quella che nel 1980 coinvolse oltre sessanta jihadisti rei di aver attaccato la Grande Moschea della Mecca). La maggior parte delle persone uccise era stata condannata per avere rapporti con al Qaeda durante attacchi di oltre dieci anni fa, ma tra loro c’erano anche quattro sciiti, accusati di aver fomentato proteste violente contro il governo e attacchi contro la polizia saudita.
Le condanne sono state eseguite in contemporanea in diverse città del Paese, sia per decapitazione sia tramite plotone d’esecuzione. Nei giorni scorsi, diverse Ong erano tornate a segnalare l’alto numero di condannati a morti da parte del governo di Riad, considerato molto repressivo soprattutto con le opposizioni interne (anche l’Iran è un altro dei tre Paesi in cui vengono eseguite più condanne: il terzo è la Cina). Come aveva scritto il Guardian, il numero di decapitazioni nel 2015 ha raggiunto il valore massimo degli ultimi vent’anni: e in totale ci sono state 157 condanne a morte nel 2015.
LO SCEICCO NIMR AL NIMR
L’uccisione che ha sollevato le proteste iraniane riguarda lo sceicco Nimr al Nimr, un chierico saudita molto noto nel mondo sciita. Al Nimr è stato protagonista di anni di protesta, pacifica, contro il regno di Riad, ed è stato considerato un simbolo per diversi Paesi del Golfo durante la primavera araba: chiedeva che l’Arabia Saudita diventasse più democratica e ponesse fine all’oppressione degli sciiti, ai margini nel regno sunnita; predicava che le due branche dell’Islam avrebbero dovuto unirsi per combattere ogni genere di oppressione. Fu arrestato nel luglio 2012, ferito durante una protesta dalla polizia: era l’anno in cui Riad aveva stretto le maglie contro le manifestazioni “pro democrazia”, risolvendo la questione con la repressione. Fu condannato a morte nell’ottobre del 2014 in seguito alle accuse di ribellione armata, disobbedienza alla monarchia e di aver favorito gli interessi di una potenza nemica dell’Arabia Saudita (cioè l’Iran).
Precedenti personali. Prima della cattura, Nimr in un sermone tenuto poco dopo la morte del principe Nayef bin Abdulaziz aveva detto che il principe sarebbe stato «mangiato dai vermi» e avrebbe sofferto «le pene dell’inferno nella sua tomba», difendendo il diritto di condannare l’uomo che aveva fatto vivere nella paura gli sciiti sauditi.Mohammed bin Nayef, l’attuale principe ereditario saudita, è il figlio di Abdulaziz Nayef ed è il titolare del ministero dell’Interno: il dicastero che nel sistema politico di Riad gestisce le condanne a morte.
Reazioni. Proteste per l’esecuzione di Nimr ci sono state in molti Paesi della regione, in particolare in Bahrein, dove Nimr era diventato il riferimento dei giovani sciiti che si ribellavano all’oppressione del monarca nel 2011 (ribellione repressa anche grazie all’intervento armato saudita che aveva permesso il mantenimento dello status quo). In Libano il partito/milizia sciita Hezbollah ha condannato l’atto, così come gli Houthi yemeniti. Il premier iracheno Haider al Abadi si è detto «addolorato» e «sconvolto» dell’uccisione e in un tweet ha ricordato che «l’opposizione pacifica è un diritto fondamentale». Venerdì, dopo quasi 25 anni, l’ambasciatore saudita in Iraq era rientrato nell’edificio nella Green Zone di Baghdad: il leader sciita Moqtada al Sadr, ha chiesto al popolo iracheno (sciita) di vendicarsi dell’uccisione di Nimr contro la nuova ambasciata saudita.
SUNNITI CONTRO SCIITI
Alberto Negri sul Sole 24 Ore ha definito l’esecuzione di al Nimr e degli altri leader sciiti «un missile virtuale» lanciato da Riad contro l’Iran. Toby Matthiesen, esperto di Arabia Saudita presso l’Università di Oxford, ha ricordato sulWashington Post che l’uccisione dell’imam era considerata «una linea rossa» nei già precari rapporti tra i iraniani e sauditi. Iran e Arabia Saudita si considerano i difensori (e i promotori) delle istanze globali rispettivamente di sciiti e sunniti, e per questo si dichiarano “nemici esistenziali”: una divisione sanguinosa e secolare all’interno dell’Islam (che la Stampa ha spiegato con un video di due minuti) fatta di continue e rispettive condanne di apostasia, mai sopita, e recentemente infiammata dalle numerose crisi che vedono impegnate le due potenze regionali.
«Lo sciismo rivoluzionario rappresenta una minaccia per i sauditi perché mette in discussione sia il loro ruolo di “custodi dei luoghi santi” sia una dottrina, come quella wahabita, ritenuta ferrea depositaria di una tradizione religiosa fondata sull’ingiustizia e la persecuzione nei confronti dello sciismo» spiega Renzo Guolo su Repubblica. E aggiunge: «Il sistema di alleanze internazionali poi ha accentuato le divergenze», perché se dal lato saudita c’è l’Occidente, l’Iran è ora partner russo nelle lotte per procura che agitano il Medio Oriente.
Posizioni e messaggi. Mentre il Gran Mufti saudita Sheikh Abdulaziz Al Sheikh, ha definito le esecuzioni una “pietà ai prigionieri”, perché li avrebbero salvati dal commettere più atti malvagi, è chiara la lettura settaria che molti Paesi fanno dell’uccisione di Nimr e degli altri sciiti, simboli delle proteste del 2011 per chiedere la fine dell’emarginazione delle minoranze religiose. Inoltre l’Arabia Saudita lancia un messaggio chiaro: vuole dimostrare che sia i membri di al Qaeda condannati sia il chierico sciita sono tutti terroristi e dunque da giustiziare per ragioni di sicurezza (e non solo interna ma globale). Hossein Jaberi-Ansari, un portavoce del ministero degli Esteri iraniano, ha definito la politica saudita «sterile» e ha annunciato che il governo di Riad dovrà pagare per questo (una linea già annunciata dagli speaker delle Guardie rivoluzionarie, l’esercito teocratico della Repubblica islamica iraniana). Contemporaneamente, la Saudi Press Agency ha riferito che l’ambasciatore iraniano a Riad è stato ufficialmente richiamato per avere chiarimenti sul linguaggio offensivo usato dal governo di Teheran.
I FRONTI APERTI
Riad ha emesso una dichiarazione di ostilità verso l’Iran, che molti analisti sostengono si ripercuoterà nei tanti fronti aperti. A cominciare dallo Yemen, dove l’Arabia Saudita è protagonista di un impegno militare che si sta rivelando poco proficuo per sedare la ribellione Houthi, movimento indipendentista di confessione sciita e filo-iraniano. Una delle guerre per procura dove proxy locali sono usati per risolvere questioni di ordine superiore: in particolare, quella che dietro allo scontro confessionale nasconde la dominazione geopolitica della regione mediorientale, aspetto fondamentale che divide iraniani e sauditi.
Poi c’è la crisi in Siria, dove i due Paesi avranno un ruolo chiave nel negoziato Onu per risolvere la crisi, perché hanno già gioco forte sul campo di battaglia muovendo vari attori locali. Riad sostiene diverse fazioni combattenti a vario grado di radicalità , che si muovono sia contro il regime sia contro lo Stato islamico; dall’altra parte Teheran appoggiaBashar al Assad, ma ha un peso nel muovere le milizie sciite che soprattutto in Iraq stanno combattendo l’Isis. Il nemico comune Califfato non basta per saldare le divisioni, nonostante sia una minaccia reale sia in Arabia sia per l’Iran (lo spostamento verso il Khorasan degli interessi dei baghdadisti ha anche come obiettivo l’avvicinamento al territorio iraniano, per gettare le basi per uno scontro con gli “infedeli sciiti”).
L’Arabia Saudita, attraverso le esecuzioni contro terroristi di al Qaeda, cerca di affrancarsi dalle accuse di sostenere qaedisti e baghdadisti (che sono invece nemici dei Saud). Ma punendo i leader movimentisti sciiti colpisce anche chi si oppone al conservatorismo radicale della casa regnante wahabita e contemporaneamente manda anche un altro messaggio alla Comunità internazionale. La condanna significa infatti, per molti osservatori, anche la presa di un distacco dalla riqualificazione offerta dagli Stati Uniti (e dal resto del mondo) all’Iran dopo il raggiungimento dell’accordo sul programma nucleare. Mentre gennaio sarà il mese in cui le sanzioni che interessano oltre 100 miliardi di dollari di Teheran bloccati in fondi stranieri inizieranno forse ad essere sollevate (e circa 11mila tonnellate di materiale atomico hanno già lasciato l’Iran verso la Russia, come contropartita per l’accordo), Riad riafferma, con questo episodio simbolico, la propria posizione di contrarietà al deal.
Ultimamente gli Stati Uniti avevano agitato la possibilità di applicare nuove sanzioni, dopo che l’Onu aveva dichiarato un test missilistico iraniano in violazione di un precedente accordo: poi Washington ha però dichiarato che le eventuali nuove misure saranno valutate successivamente, per non compromettere quanto di positivo raggiunto finora. La vicenda, ha scritto sul Foglio Mattia Ferraresi, dimostrerebbe come «la leva vantaggiosa nella partnership sia nelle mani degli ayatollah». Posizione di certo non gradita ai sauditi, che si sono sempre dimostrati sfavorevoli all’accordo. «L’ambasciata saudita in Iran è in fiamme, insieme alle speranze degli Stati Uniti di colmare le loro divisioni, dopo l’esecuzione di Arabia Sheikh Nimr», ha scritto su Twitter Liz Sly, inviata a Beirut del Washington Post.
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