La testimonianza del giornalista Cristiano Tinazzi, collaboratore del Messaggero e reporter specializzato in aree di crisi che si trova ora in Libia
La situazione libica è ormai argomento di cronaca internazionale, soprattutto in Italia dove questioni che intrecciano la vicinanza geografica, gli interessi economici e i legami storico-culturali con il Paese nordafricano, rendono prioritario il dossier. Comprendere quello che sta succedendo è complesso, soprattutto in questo momento in cui quella complessità è moltiplicata da due fattori. Il primo: il tentativo delle Nazioni Unite di trovare una soluzione diplomatica alla crisi, facilitando il dialogo tra le due macro-fazioni in guerra, Tripoli e Tobruk, attraverso l’appoggio ad un Consiglio presidenziale che avrà il compito di creare un governo di concordia nazionale. Secondo: l’attecchimento all’interno del Paese dello Stato islamico, delle sue istanze, dei suoi metodi, delle sue dinamiche (il possibile arrivo di combattenti stranieri da altre aree africane), considerato la questione prevalente da eliminare per risolvere la crisi che attanaglia la Libia praticamente da cinque anni.
In una conversazione con Formiche.net Cristiano Tinazzi, collaboratore del Messaggero e reporter specializzato in aree di crisi che ora si trova in Libia, spiega che nel Paese in questo momento «prevale la stanchezza» più che la paura per la presenza dello Stato islamico. I libici pensano «alle questioni economiche, al problema dei prelievi in banca (max 500 dinari al mese), agli stipendi non pagati ai dipendenti statali». «C’è molta disillusione» più che timore dei baghdadisti: «Il governo Serraj si è già presentato male – dice continua Tinazzi – con gli otre trenta ministri che tra viceministri e sottosegretari, e più gli stessi membri del comitato presidenziale, dovrebbero portare a 108 persone il numero di notabili: è evidente che si tratta di uno schiaffo in faccia a chi ha difficoltà ad arrivare alla fine del mese».
TRE GOVERNI
In questo momento in Libia non ci sono più semplicemente due governi contrapposti che si contendono la legittimità, «ma l’Onu e l’Occidente ne hanno sponsorizzato un terzo» che però non sembra, almeno per ora, trovare quell’ampio consenso che è necessario ad un suo effettivo insediamento. «Quello di Fayez Serraj, la guida del Consiglio presidenziale, amministra forse la lobby di un hotel a Tunisi», ironizza Tinazzi: in effetti il Consiglio, per ragioni di sicurezza, si riunisce in un hotel della capitale tunisina e la primissima esperienza di Serraj sul suolo libico è stata una vicenda al limite tra il grottesco e il disastroso, mettendo il futuro primo ministro a rischio della vita per tre volte in poche ore.
Ai tre governi vanno aggiunte le centinaia di milizie armate, che perseguono agende personali (legate ad interessi locali e/o tribali) e contemporaneamente provano «a strumentalizzare le potenze straniere e le loro preoccupazioni, magari assecondandole, ma solo a parole e solo per assicurarsi qualche vantaggio nelle lotte di potere interne al Paese» scrivono Cristiano Tinazzi e Amedeo Ricucci (inviato Rai in Libia) in un post su Facebook in cui provano a spiegare la situazione reale nel Paese, stando sul posto.
LA PERCEZIONE DELL’ISIS
«Più passano i giorni e più aumenta la distanza fra la forza reale dell’Isis in Libia e quella che invece viene percepita in Occidente (e agitata a mo’ di spauracchio davanti all’opinione pubblica dei Paesi occidentali)”, dicono Ricucci e Tinazzi. Una presenza che non va comunque sottovalutata. «In Tripolitania siamo passati da: “Isis non esiste o è solo roba di stranieri o gheddafiani”, a “problema reale e riconoscimento della filiazione da Ansar al Sharia” (gruppo storico jihadista libico, che secondo diversi analisti e conferme dal posto, avrebbe fatto da network di attecchimento per lo Stato islamico in Libia. ndr)» aggiunge Tinazzi. Questo significa che l’Isis in Libia sta sfruttando un tessuto di radicazione preesistente e per certi versi storico. È stato il portavoce del ministero della Difesa a spiegarlo pochi giorni fa durante una conferenza stampa («vuota direi, a parte un paio di tv locali» dice Tinazzi), in cui è stata ricostruita la nascita dell’Isis in Libia; è importante questo passaggio perché prima il collegamento con Ansar al Sharia non era mai stato ammesso in una dichiarazione ufficiale. Fonti militari di Misurata, hanno invece raccontato a Tinazzi che c’è stato un iniziale errore strategico e di valutazione: hanno lasciato Sirte «in una sorta di limbo statale con poca presenza governativa» e questo ha dato spazio alle dinamiche radicali sfruttate poi dall’Isis.
Tuttavia dal posto la percezione della presenza e della potenza dello Stato islamico in Libia appare più sobria che nei racconti occidentali: «Fin quando rimane circoscritto a Sirte, l’Isis non è un problema impellente per i libici», dice Tinazzi. «I servizi di Misurata parlano di 1500 massimo 2 mila combattenti» numeri minori rispetto alle stime delle intelligence europee e americane (che variano dai 3 ai 5 mila). Questa differenza è legata anche al «mercato della paura» (un “Effetto Califfo”) spinto spesso dai media, ma anche dalla presenza in Libia di interessi strategici.
L’INTERVENTO MILITARE OCCIDENTALE
Si ipotizza da tempo la possibilità di un intervento militare, da far seguire alla richiesta del futuro governo unificato ma che per qualcuno potrebbe avere addirittura carattere unilaterale. In via ufficiale il target designato per la missione dovrebbe essere l’Isis, per eliminarlo prima che rafforzi troppo le proprie posizioni in Libia, vicino alle nostre coste» aggiunge Tinazzi, ma «è evidente che ai governi in questione (Francia, Italia, Regno Unito, Stati Uniti) preme anche (soprattutto?) mettere in sicurezza le aree petrolifere, da cui dipendono i nostri rifornimenti energetici e la stabilità delle infrastrutture, sempre più a rischio».
Il reporter italiano spiega che i libici sono fondamentalmente contrari a qualsiasi genere di intervento armato occidentale, «un conto sono raid aerei puntuali su postazioni dello Stato islamico, un altro è mettersi boots on the ground». Gli incontri avuti da Tinazzi a Misurata, con il capo dell’intelligence Ibrahim Shukri e con vari comandanti di brigata del Consiglio militare cittadino, smentiscono in parte quello scritto da diverse testate italiane ed internazionali: «Nessun segnale su possibili preparativi di un’offensiva di terra verso Sirte da Misurata, che tra l’altro è distante quasi trecento chilometri e richiederebbe un grosso supporto logistico». Nessun segnale anche dai comandi di Tripoli e di Sabratha, che negano anche di essere in contatto con forze speciali straniere: si è parlato molto della presenza di team militari di élite sia americani, che francesi, inglesi ed italiani, già sul campo per preparare l’offensiva contro lo Stato islamico.
Ricorda infine Tinazzi che mercoledì Giampiero Massolo, capo del Dis (Sistema per l’informazione per la sicurezza della Repubblica, i servizi segreti italiani), in audizione al Copasir (il comitato interparlamentare che comanda i servizi) ha spiegato che «il ruolo attivo dell’intelligence in Libia servirà più che altro a fare da catalizzatori dell’incontro tra i due governi, prima che la situazione peggiori». «Massolo ─ dice Tinazzi ─ ha spiegato che l’opzione militare, di cui si parla in questi giorni, a quanto si apprende, viene vista, almeno in questa fase, come non all’ordine del giorno, ma come uno strumento utile di pressione, per spingere verso una soluzione politica».
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