Di Ugo Savoia
Il 16 ottobre 2013 era un mercoledì e il termometro a Milano segnava 15 gradi (la minima aveva raggiunto i meno 8 nella notte), appena un paio di tacche sotto quella che viene considerata la media stagionale. Mentre alla Triennale veniva inaugurata la mostra sui primi cento numeri della Lettura, inserto domenicale del Corriere della Sera, nel piccolo Comune di Sedriano succedeva qualcosa a suo modo di storico: per la prima volta in Lombardia veniva sciolto un consiglio comunale a causa di accertate infiltrazioni mafiose.
Ma non erano queste cose ad attirare l’attenzione dei milanesi. Chi si fosse trovato a passare dalla Stazione Centrale, non avrebbe potuto fare a meno di notare uomini, giovani donne e bambini appena sbarcati da un treno proveniente dalla Sicilia. Erano circa 150, forse 200 non di più, evidentemente stranieri (mediorientali? magrebini?) e se ne stavano lì nel mezzanino ad aspettare che qualcuno dicesse loro che cosa dovevano fare. Milano guardava in faccia per la prima volta le persone scappate dalle guerre e dalle cosiddette primavere arabe e quel manipolo di persone silenziose rappresentava il primo refolo di una tempesta che avrebbe portato qui almeno 85 mila rifugiati a vario titolo negli ultimi due anni. Fino ad allora il problema era stato gestito senza particolari problemi, anche per l’esiguità dei numeri. Ma quel giorno cambiò tutto, non solo perché il Comune fu costretto ad organizzare improvvisati punti di raccolta in cui offrire cibo e assistenza sanitaria – venne lanciato un appello alla cittadinanza perché contribuisse come poteva, in particolare con vestiti usati e coperte -, ma anche perché fu subito chiaro che stava cominciando una vera emergenza. E che il governo avrebbe pagato chiunque si fosse offerto per aiutare a gestirla. La diaria, garantita dalla prefettura, era (ed è) di 35 euro al giorno per ogni profugo.
«Sì, quella fu una svolta. Perché prendeva corpo anche qui il business della gestione dei rifugiati. Lo stesso per intenderci che è emerso in dimensione ben più ampia dall’inchiesta Mafia capitale», dice Faustino Boioli, un signore milanese nato nel 1940 che nella vita è stato tante cose: medico, consigliere comunale prima per il Pci poi per il Pds, assessore tra il 1985 e il ’90, primario di Radiologia al Fatebenefratelli, associato dal 1999 alla sezione italiana di Medecins du Monde (organizzazione “cugina” di Medici Senza Frontiere), fondatore con un gruppo di colleghi dell’associazione Medici Volontari Italiani, onlus che offre assistenza medica gratuita a clandestini, esclusi o autoesclusi dalle cure mediche, e gestisce un poliambulatorio in via Padova.
Quei rifugiati erano arrivati qui dalla Siria o dalla Tunisia grazie a qualcuno che aveva gestito i loro flussi dai Paesi d’origine facendosi pagare, come è noto, migliaia di dollari o di euro a persona. Erano vestiti abbastanza bene e molti di loro, specie i siriani, parlavano inglese. Erano arrivati a Catania e da lì, in treno, erano sbarcati a Milano per poi raggiungere altre destinazioni europee (Germania e Francia in particolare). Ma non fornivano documenti, non volevano essere registrati in alcun modo. «Fu subito chiaro – prosegue Boioli – che l’anonimato rappresentava una situazione pericolosa, perché in mezzo alle tante persone effettivamente fuggite dalla guerra, poteva nascondersi chiunque, terroristi compresi, o anche solo stuoli di furbi che pur non avendo lo status di profughi venivano trattati come tali. Con il passare dei mesi, l’aumento degli arrivi a Milano e in Lombardia ha raggiunto le dimensioni di business vero e proprio, soprattutto per piccoli alberghi e pensioncine che non navigavano in buone acque».
«Fu subito chiaro – prosegue Boioli – che l’anonimato rappresentava una situazione pericolosa, perché in mezzo alle tante persone effettivamente fuggite dalla guerra, poteva nascondersi chiunque, terroristi compresi, o anche solo stuoli di furbi che pur non avendo lo status di profughi venivano trattati come tali»
Basta far due calcoli. L’imponente numero delle persone da gestire fa sì che sia sufficiente offrire la propria disponibilità ad ospitarne una trentina a settimana per risanare il bilancio di un piccolo albergo o di una associazione assistenziale: 30 per 35 dà come risultato 1.050 euro al giorno. Facciamo che l’albergatore, o l’associazione, ne spendano 450 per garantire un letto e la prima colazione per tutto il gruppo (pranzo e cena vengono in genere forniti da altre organizzazioni): restano 600 euro al giorno, vale a dire 18 mila euro netti al mese. La permanenza media dei profughi è di circa 9 mesi, quindi basta moltiplicare per capire le dimensioni di un business che ha ampi margini di guadagno. «Ma non è soltanto questo il punto. La realtà è che più aumentavano i profughi mediorientali e più aumentava la presenza a Milano di Islamic Relief, ong inglese presente in tutta Europa per dare assistenza ai migranti di religione musulmane e per questo finanziata dalle istituzioni europee, nonostante si dica usi quei soldi per finanziare a sua volta Hamas e i Fratelli Musulmani».
«Proprio alla luce di questa considerazioni, andrebbe chiarito che i profughi non sono da considerare tutti acriticamente dei santi - continua Boioli -. Gheddafi, per esempio, aveva svuotato le carceri libiche indirizzando i detenuti verso l’Italia. E io che sono un medico, non il confessore o l’amico di un rifugiato, sono disposto ad assisterlo a patto che rispetti le regole del nostro Paese, che non pretenda di essere trattato meglio dei cittadini italiani, magari giocando sui nostri sensi di colpa o sull’ingiustificato buonismo che ci caratterizza. Non dimentichiamo che molti di costoro sono in possesso di documenti rubati, cosa che rende impossibile la loro effettiva identificazione. Su questo bisogna essere inflessibili. La professionalità che noi mettiamo nell’assisterli o nel curarli non ha niente a che fare con il buonismo, che è tolleranza acritica di fenomeni e comportamenti che devono essere positivamente e qualche volta energicamente gestiti. La professionalità è la capacità di svolgere la propria attività con competenza ed efficacia: il cosiddetto buonismo è invece una fuga dalle proprie responsabilità in momenti critici, quando l’emotività prevale sulla razionalità ».
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