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Di Pierluigi Fagan
Al fine di assicurare a una popolazione una fetta sproporzionata di benefici (di crescita e prosperità) venne fatto ogni sforzo per escludere gli altri, sia attraverso mezzi legislativi pacifici di monopolio, di regolamentazioni o divieti, o, se questi mezzi fallivano, attraverso la violenza diretta.
Ammiraglio A. Mahan, The Influence of Sea Power Upon History, 1890, pag. 1
Nell’ottobre 2011, l’allora segretario di Stato americano Hillary Clinton pubblicava un articolo su Foreign Policy dal titolo: “America’s Pacific Century”.[1] L’articolo tratteggiava le linee del riorientamento strategico USA, in direzione dell’Asia. Tale dottrina venne battezzata “pivot to Asia” ed è comunemente citata come l’asse principale delle geopolitica obamiana.
La geopolitica è l’aspetto più importante della vita degli Stati poiché è l’ambito in cui si determinano i rapporti di forza tra gli stessi. Ogni Stato è un sistema ed ogni sistema dipende strutturalmente da una serie di condizioni esterne che ne determinano la sicurezza, la forza, la salute. La parte “politica” di geopolitica serve a risolvere i problemi determinati dalla parte “geo”, cioè della geografia. Ogni Stato ha una sua condizione geografica alla quale è fisicamente vincolato, tale condizione presenta problemi ed opportunità; la politica serve appunto per minimizzare i problemi e dilatare le opportunità date dal vincolo geografico. Ne discende che mentre la parte politica della geopolitica ha una sua variabilità interpretativa, la parte geo è in un certo senso “fissa”.
La parte fissa, la geo di geopolitica, vede sin dalla nascita della disciplina, il mondo diviso in due aree: l’area di terra, cioè il continente detto isola-mondo euroasiatico che va dal Portogallo alla punta estremo-orientale siberiana e l’area di mare. Dell’area di mare fanno parte il Regno Unito, da cui provenne uno dei fondatori della disciplina, Halford Mackinder (1861-1947)[2], e gli Stati Uniti d’America, da cui provenne sia Nicholas J. Spykman (1893-1943)[3], sia Zbigniew Brzezinski (1955)[4], entrambi significativi studiosi della disciplina.
Tutti e tre, in vario modo, sostenevano che l’interesse geopolitico fondamentale degli Stati-isola (il Regno Unito prima, gli Stati Uniti poi, al limite anche il Giappone) fosse quello di evitare si formasse un macrosistema nell’isola-mondo, poiché questo avrebbe relegato i sistemi-isola ad un ruolo periferico e marginale. La dottrina geopolitica di fondo americana, per quanto attiene alla pertinenza di geo, è quindi sempre stata quella di evitare il formarsi di questo meta-sistema continentale.
La dottrina Clinton-Obama del “pivot to Asia” invece, era di pertinenza della politica ovvero di come praticare oggi la dottrina geopolitica di fondo. Dacché sorge un problema: se Clinton-Obama hanno parlato solo di Asia, che ne è dell’altra metà della dottrina fondamentale, dell’Europa? Dov’è il “pivot to Europe”?
Storicamente, infatti, gli Stati Uniti si sono certo occupati del Pacifico, occidentalizzando il nemico giapponese che avevano appena atomizzato, poi provando a ricavarsi un pied-à-terre con la guerra di Corea (1950-53), poi riprovandoci con la guerra del Vietnam (1960-1975), poi portando prima una squadra di ping pong e poi il presidente in persona (Nixon, 1972) a Pechino per abbracciare i cinesi, di modo che questi non abbracciassero i russi, poi favorendo la crescita delle tigri asiatiche e via di questo passo.
Però, questo quadrante geopolitico era solo la metà della strategia complessiva. L’altra metà, quella atlantica, la risolsero con l’interdizione al contatto tra Europa ed il resto dell’isola mondo, favoriti dalla presenza di un nemico ideologico, il comunismo sovietico. Una bella cortina di ferro fece dormire sonni tranquilli per più di quarant’anni fino a che, tra l’89 ed il ’91, non crollò. Se guardate un mappamondo dalla verticale del Polo Nord, noterete facilmente che l’esatto opposto terrestre dell’America del Nord è la Russia. La Russia è sempre stata il centro del problema degli Stati-isola perché è il centro dell’isola mondo. Se la Russia si allacciasse all’Asia da una parte ed all’Europa dall’altra, voilà, comparirebbe l’incubo geopolitico degli isolani: l’Eurasia.
Dopo l’89, per un po’ gli americani si illusero di poter pasteggiare con le dilaniate carni dell’Unione Sovietica dalla quale si andavano separando non solo tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia ma anche una serie di repubbliche dei confini. In Russia sponsorizzarono una oligarchia capitalistico-predatoria fino a che non arrivò Vladimir Putin (2000). Ecco allora che gli americani corrono subito al riparo e, grazie anche al movimento del gigante cinese che tramite Deng Xiaoping aveva dichiarato che «la miseria non è il socialismo» , invitanoprontamente i cinesi ad entrare nell’Organizzazione mondiale del commercio (2001).
Una Cina integrata nel sistema della moderna economia di produzione e scambio era una Cina attratta dagli USA ed infatti l’import-export tra i due avanzò a ritmi crescenti, così le delocalizzazioni e così gli investimenti reciproci, tra cui la vendita di ampie porzioni di debito pubblico americano ai cinesi stessi. Nel frattempo, poco dopo il crollo della cortina di ferro e la dissoluzione dell’URSS (1991), gli europei avevano scoperto una afflato unionista (1992) che certo gli americani videro di buon occhio poiché, ricondotti i singoli ed intemperanti Stati europei ad un sistema interdipendente, sarebbe stato più facile contenere la loro storica tendenza a far ognuno un po’ come gli pareva.
Nel 2004, l’UE assorbe baltici, polacchi, cechi e slovacchi, sloveni ed ungheresi; nel 2007 arrivano anche bulgari e rumeni, infine i croati. In tre puntate, dal ’99 al ’09, con il quarto, quinto e sesto allargamento, entrano tutti anche nella NATO. Sarà un caso ma proprio mentre l’unione politico-economica e quella militare si allargano per inghiottire l’Est Europa affiorato dallo scioglimento dei ghiacci sovietici, gli euro-occidentali fanno una unione nell’unione, adottando la moneta unica, l’euro.
Provvidenzialmente, un gruppo di sofisticati montanari afgano-pakistani, usando come manovalanza un gruppo di astuti pastori del nord dell’Arabia Saudita, dichiara guerra agli Stati Uniti (11 settembre 2001), i quali giustamente accettano di buon grado recandosi in gran forze in Afghanistan (2001), lo storico perno centro-meridionale dell’Eurasia, già tomba dell’Unione Sovietica.[5] L’Iraq è lì ad un passo ed infatti seguendo le misteriose tracce degli imprendibili terroristi ci fanno un salto nel 2003.
A dieci anni dall’11 settembre esplode il mondo arabo ed ecco a filotto rovesciarsi il governo tunisino ed egiziano, la guerra civile poi anche guerra anglo-francese contro Gheddafi e la Libia, l’inizio della guerra civile in Siria. Cadono o s’insidiano tutti i governi laici, certo dittatoriali ma non è che il Medio Oriente preveda altro che non governi dittatoriali. In verità rivolte ce ne sono in tutto il mondo arabo, sistematicamente soffocate nel sangue e con gli arresti, ma chissà perché, quelle in Bahrein[6] o nello Yemen, quelle in Kuwait, Gibuti e Arabia Saudita, interessano poco gli occidentali e così muoiono sul nascere.
L’onda lunga arriverà nel 2013 in Turchia con imponenti manifestazioni, ma il paese essendo NATO è immune da critiche e la copertura mediatica distratta. Evidentemente lì qualcuno ha equivocato. Saputo che c’era un party aveva deciso di partecipare spontaneamente ma non sapeva che l’ingresso era riservato, l’operazione “democrazia e modernità nell’islam” era ad inviti.
È da poco stato deposto Mubarak in Egitto quando inizia la guerra civile siriana. Sette mesi dopo viene ucciso Gheddafi. È l’ottobre 2011, il mese in cui esce Foreign Policy con l’articolo della Clinton. Gli Stati Uniti d’America, nel bel mezzo del più grande ed importante rimescolamento politico e quindi geopolitico del mondo arabo-mediorientale a cui si sono dedicati per decenni, annunciano che la loro dottrina di orientamento geopolitico se ne frega assai di questo mondo perché guarda all’Oriente. Resa figurata, la scena sarebbe quella per cui il poliziotto di quartiere, proprio nel momento in cui inizia una hobbesiana rissa tra gang rivali, si volta dall’altra parte magneticamente rapito dalla gracchiante voce alla radio che gli ordina di recarsi urgentemente in un altro quartiere in cui per altro non sta succedendo assolutamente nulla.
Gli Stati Uniti sembrano rinunciare al decisivo fronte della loro storica dottrina geopolitica, che deve isolare le terre di mezzo da quelle occidentali, per dedicarsi armi e bagagli a quelle orientali. In verità succede ben poco a seguito di questo tanto declamato riorientamento. Qualche soldato in più e qualche palazzina riverniciata nella base australiana di Darwin, la tessitura di un trattato commerciale (TPP) che include diversi Stati (11 + gli Stati Uniti) che s’affacciano sul Pacifico col fine di sottrarli all’interrelazione economica con la Cina. Qualche viaggio della speranza del presidente, che sfoggiando sorrisi e camicette colorate d’Oriente, stringe mani, fa promesse e richieste di amicizia.
Nel mentre, nell’agosto 2013, c’è un proditorio attacco chimico a Damasco, Obama sta per far decollare i bombardieri per punire il sospetto presidente siriano quando Putin fa sapere che non è cosa. Il febbraio successivo (2014), gli abitanti di Kiev che volevano ardentemente diventare europei cacciano il presidente Yanukovych, che invece era fedele alla Russia. Il mese dopo, a marzo 2014, la penisola della Crimea secessiona dall’Ucraina in base ad un referendum e viene annessa alla Federazione russa. Sanzioni! La Russia sta tornando ad una verve imperiale?
Tre mesi dopo, a giugno 2014, una organizzazione derivata dall’arcipelago al-Qaeda in Iraq che si era chiamata “Stato Islamico dell’Iraq” e che poi si era infilata in Siria conquistandone una parte in cui aveva fatto sua capitale Raqqa, cambiando nome in “Stato Islamico dell’Iraq e della Siria” (o del Levante) – insomma, l’ISIS – proclama il califfato. Sebbene il califfato fosse stato l’unica forma politica di governo lungo tutta la storia dei musulmani, dal 632 al 1924, si fecero tutti delle gran risate.
Un mese dopo il divertente califfato siro-iracheno, qualcuno butta giù un ignaro aeroplano malese che ha la sventura di sorvolare il confine russo-ucraino, lì dove alcuni ribelli russofoni-ucrainici armati vorrebbero seguire la Crimea in Russia. Tra le risate califfali ed i pianti per i bambini olandesi morti nello schianto del volo malese, Barroso scrive alla Bulgaria dicendogli che l’accordo per il passaggio del nuovo gasdotto russo South Stream contravviene le regole concorrenziali di Bruxelles[7] e nun se po’ fà. Accidenti.
L’Europa, in seguito ai fatti ucraini, ha già elevato sanzioni contro la Russia. Improvvisamente tutte le tele di interscambio energia vs. tecnologia che si erano tessute tra banche ed imprese tedesche, francesi, italiane ed i russi vengono tagliate di netto. Il gasdotto bulgaro, il South Stream, che doveva esser fatto da ENI e Gazprom e che sarebbe stata una alternativa a quello che passa per l’Ucraina ed a quello che passa nel Baltico ed arriva in Germania, non si farà più.
Siamo a dicembre di un anno in cui prima è scoppiata la rivoluzione colorata ucraina, poi è secessionata la Crimea, poi è iniziata la guerra del Donbass ed è caduto l’aereo malese, poi si è presentato uno sconosciuto col Rolex che dichiara di essere il “califfo”, poi è saltato il South Stream così che infine, dopo aver perso i contatti con l’Europa, aver ricevuto le sanzioni, esser stato minacciato di espulsione dal circuito interbancario SWIFT, dopo aver perso due portaerei che gli dovevano consegnare i francesi già belle e pronte con tutti i comandi in cirillico, dopo aver capito che il gas all’Europa mai più sarebbe passato per l’Ucraina e la Bulgaria, Putin annuncia con Erdogan il Turkish Stream, l’ultima possibilità di rimanere attaccato all’ovest dell’Eurasia, l’Europa.
Scopriamo così, piano piano, che, senza alcun piano pregresso, senza alcun articolo di annuncio strategico, nel totale disinteresse americano tutto concentrato verso Oriente o meglio tutto concentrato a far sapere che è concentrato verso Oriente, prima si è portato tutto il Patto di Varsavia nella UE e nella NATO, poi, provvidenzialmente, l’avamposto ucraino è saltato dalla nostra parte, è iniziata una guerra fredda con la Russia, il gasdotto alternativo bulgaro è saltato ed a Putin non è rimasto altro che affidarsi ad Erdogan. Erdogan però è un birichino, è un paese NATO e aspira ad entrare nell’UE sponsorizzato prima dai francesi poi da i tedeschi che Erdogan ricatta aprendo e chiudendo flussi di disgraziati che scappano dalla Siria immortalando qualche povero bambino morto sulla spiaggia di modo che i cuori teneri europei allarghino le frontiere cantando l’Inno alla gioia mentre piangono e si sentono buoni, ma nel frattempo è inciampato in una elezione in cui ha perso la maggioranza assoluta in favore di un partito curdo e così non può incoronarsi sultano.
Già, perché il segreto sogno del turco è farsi sultano che poi sarebbe un califfo versione ottomana.[8] Per fortuna rifà le elezioni e questa volta le vince. Certo rimangono i curdi sia in parlamento che nella società civile che oltre i bordi confinari, soprattutto quelli siriani, ma ecco che un bel giorno l’aspirante sultano spara un bel missile su un jet russo buttandolo giù. È impazzito? Ma come, neanche un anno fa firma le carte per il Turkish Stream, firma contratti per 44 miliardi di interscambio con i russi subentrando agli europei paralizzati dalle sanzioni, ed ora si volta alle spalle dell’orso moscovita e lo pugnala alle spalle sapendo che anche gli orsi, nel loro piccolo, s’incazzano? Perché?
Per rispondere dobbiamo tornare al mondo arabo-mediorientale. Qui la storia susseguente le primavere arabe vede un protagonista assoluto, nuovo di zecca: l’ISIS. Nato in sordina, ingaggiato nella guerra irachena poi guerra sciiti-sunniti iracheni, poi allargatosi alla Siria, poi allargatosi al Nord Africa, alla Nigeria, al Mali, alla Somalia, alla Cecenia, al Pakistan e forse anche oltre, inclusi gli uiguri cinesi, gli islamisti del califfo occupano un territorio in proprio che ci tengono a far sapere che è grande come la Gran Bretagna, sebbene sei volte meno popoloso e per lo più fatto di sabbia.
Più di mezzo Iraq e di mezza Siria ormai è nelle loro mani. La Libia è balcanizzata, l’Egitto è fuori gioco essendo stato messo nelle mani di un generale che sopravvive grazie ai finanziamenti degli emirati; emirati e sauditi che furono i primi a bombardare la Libia di Gheddafi, emirati e sauditi che ormai tutti sanno essere i finanziatori e gli strateghi dell’ISIS, emirati e sauditi che bombardano anche lo Yemen. Poi c’è il Qatar, che finanzia altre formazioni che assieme all’ISIS balcanizzano la Siria e che avrebbe un programmino che prevede un gasdotto che arriverebbe in Turchia, Turchia che è anche sponsor logistico dell’ISIS, poiché tra sultano e califfo ci s’intende. Assad, pressato dai russi, non firma l’accordo per il gasdotto qatariota ma accetta un concorrente che origina dall’Iran (il gasdotto sciita Iran sciita-Iraq sciita-Siria alawita cioè sciita).
Dopo che l’ISIS ha finalmente bucato la nostra disattenzione venendoci a mitragliare nei boulevard parigini, chiamando mezza Europa a bombardarli visto che i russi sembravano troppo timidi, tutto l’Occidente, in preda ad una ansia paranoide, si domanda che fare? Ecco allora che qui e là sulla stampa che conta[9] escono fuori cartine colorate risolvi-ISIS. La ricetta è omeopatica: per battere lo Stato islamico bisogna fare un bello stato islamico! Poi anche uno curdo, uno alawita, uno sciita iracheno, l’importante è dividere et… !
Oh, finalmente idee nuove? Non proprio, perché queste cartine e le sottostanti idee, risalgono a molti, molti anni fa. Si potrebbe partire addirittura dallo Yinon Plan[10] sionista del 1982, ma basterebbe anche un più solido progettino redatto da Richard Perle per Bibi Netanyahu nel 1996. Ma Perle chi? Quello che aveva presentato un sobrio pianofantasies in geopolitics all’università di Gerusalemme nel 1999 in cui sosteneva che per abbattere Saddam, che finanziava i palestinesi, si sarebbe dovuto attaccare gli Stati Uniti a casa loro e poi dargli la colpa perché altrimenti gli americani non si sarebbero mai mossi? I capo del Defense Policy Board Advisory Committee sotto l’amministrazione Bush dal 2001? Il membro di punta del PNAC, del Jewish Institute for National Security Affairs, dell’American Enterprise Institute e dell’Hudson Institute e dello steering committee del Bilderberg Group? Sì, proprio lui…[11]
Oppure, ci si potrebbe riferire ai piani del 1997 proprio di quel Zbigniew Brzezinski che abbiamo incontrato all’inizio di questo articolo nell’elenco dei geopolitici con la paranoia euroasiatica. Oppure capire cosa volesse intendere Condoleezza Rice quando nel 2006 coniò il termine “nuovo Medio Oriente”, un’altra fulminata dalla paranoia euroasiatica visto che si specializzò in geopolitica del centro Asia. Tutta la genealogia di questa idea, che ha altre puntate, la trovate in un come al solito molto ben informato e serio articolo di M. G. Bruzzone.[12]
Ma torniamo alla nostra strada principale. Sembrerebbe legittimo pensare che poiché la geo di geopolitica è sempre quella, le strategie ad essa relative siano costanti nel tempo. La strategia dell’isola americana è sempre la stessa da quando si è cominciato a ragionare di questi fatti: isolare il centro dell’Eurasia di modo che il centro Asia (Russia) non si connetta all’Asia ma soprattutto all’Europa. La politica di geopolitica è variata a seconda delle amministrazioni. Quella Obama ha pubblicizzato un segno forte rivolto alla Cina e concretizzatosi poi finalmente in vari modi. Si va dal TPP (firmato quest’anno), alle manovre del RIMPAC, la più grande esercitazione navale del mondo che si tiene ogni due anni nel Pacifico; dal superamento della costituzione pacifista imposta da MacArthur al Giappone, che ora procede all’intenso riarmo, a nuovi allerta confinari tra le due Coree, alle contese isole sino-nipponiche Diaoyu-Senkaku, a quelle più a sud dove ogni tanto s’affacciano navi americane che sbirciano i lavori in corso sugli atolli che i cinesi rivendicano a sé; i vari accordi con Vietnam, India, Malesia, Filippine; i piagnistei sul Tibet, i crolli di Shanghai, le primavere di Hong Kong, i cyber attacchi, lo yuan tenuto in castigo all’FMI ed un bel po’ d’altro; insomma il pivot to Asia.
Ma oltre al fascicolo pubblico sull’Asia, ce n’era forse un altro, perché non c’è strategia euroasiatica che non si occupi anche e soprattutto dell’Europa. Ecco allora l’Ucraina, lo scendere sempre più a sud dell’ultima pipeline che tiene attaccata la Russia al grosso dell’Europa, fino al Turkish Stream del sultano Erdogan. Ma ecco che Erdogan fa uno sgarbo ai russi e taglia implicitamente anche l’ultima pipeline rimasta. Rimangono due problemi: 1) dove prenderà l’energia l’Europa se non dalla Russia? 2) Cosa dare in cambio al sultano Erdogan per il suo sacrificio, tenuto conto che nel frattempo avendo elettrizzato il nazionalismo turco eccitato dalle sanzioni russe, Erdogan può finalmente spazzar via i curdi di ogni ordine e grado dalla terra anatolica preparandosi al suo nuovo ruolo di capo dei sunniti turchici?
La prima domanda ha risposta semplice: l’Europa prenderà l’energia, petrolio o gas, dalle monarchie del Golfo.[13] Le monarchie del Golfo ormai egemonizzano tutto il Medio Oriente sunnita, tengono in scacco l’Egitto e la Libia, possono disturbare ovunque e chiunque nell’Islam del dar-al-Islam e della diaspora, avendo raggiunto il quasi pieno controllo dell’islamismo sunnita, tanto quello armato quanto quello teologico-giuridico. Le monarchie del Golfo sono benevole perché reinvestono parte dei profitti energetici ritornandoli riconoscenti agli USA sotto forma di acquisto armamenti (l’Arabia Saudita è il primo importatore di armi al mondo), all’Europa di cui stanno comprando interi quartieri, pacchetti azionari, linee aeree e molto altro che fa gola ai loro fondi sovrani, all’islam stesso in cui ormai hanno il monopolio di costruzione e gestione tanto delle scuole coraniche quanto delle moschee. Così come stanno facendo in Egitto, sono poi pronte ad accollarsi buona parte degli oneri di ricostruzione di tutto ciò che primavere, rivoluzioni, guerriglia e Stato Islamico hanno distrutto; puro Schumpeter.[14].
Una volta che l’Europa non avrà interdipendenza con la Russia, la Russia verrà cucinata con la continuazione del “primo conflitto globale” (ampliato a tutto il mondo, ampliato all’economia, alla finanza, al terrorismo e alle migrazioni, a guerre fredde-tepide-calde, a rovesciare regimi, ecc.), che è esattamente ciò che stiamo vivendo. Manca ancora la Germania, ma dopo VW e Deutsche Bank, le intercettazioni alla Merkel e qualche altro giochino prossimamente su i vostri schermi, vedrete che anche i tedeschi rinunceranno al North Stream e se non lo faranno rimarranno al freddo quando inizierà la prossima crisi annunciata: la grande crisi baltica. Per tutti, un bel TTIP per scambiare merci e denaro tra noi occidentali tutti votati al gioco delle plusvalenze di borsa racchiuse in bolle alimentate da generosi QE e diretti dai cani pastore del rating.
La seconda domanda viene incontro alla soluzione della prima. L’ISIS verrà infine normalizzato, si farà uno stato sunnita siriano “islamico-light” in cui correrà il gasdotto qatariota che arriverà in Turchia e sarà uno dei bocchettoni a cui si attaccheranno gli europei, soprattutto orientali. Questo Stato sarà in orbita Erdogan, che potrà scaldarsi con energia sunnita e padroneggiare le sue nuove terre concedendo forse a gli americani direalizzare il famoso stato curdo in cui, a quel punto, potrà espellere con le buone ma più probabilmente con le cattive, tutti gli indesiderati curdi turchi.
Si farà poi uno Stato sunnita iracheno che rimarrà in orbita arabo-saudita felice di poter mettere uno spazio ulteriore tra sé e gli sciiti. Il generoso Erdogan, che gli europei hanno disdegnato, potrà anche riprendersi un po’ di profughi. Tutti gli occidentali ora accorrenti al bombarda anche tu il tuo ISIS avranno di che ricostruire. Non è detto che una improvvisamente violenta guerriglia nel Sinai, prima di mandare i tagliagole da altri parti, non sottragga la penisola all’Egitto (in cui al-Sisi è in prossima scadenza), permettendo così il passaggio di un secondo bocchettone, questa volta Saudi-Emirates, rivolto agli europei occidentali.
Il “pivot to Europe”, il piano che non c’è ma si vede, ovvero staccare l’Europa dalla Russia accerchiata ed isolata, sarà così definitivamente implementato. Missili nel nuovo Kurdistan, nel Caucaso turco, in Georgia, in Ucraina, in Polonia, nelle repubbliche baltiche terranno occupati russi ed iraniani. Ai cinesi abbiamo già pensato e possiamo poi mandargli anche un po’ di uiguri affamati di martirio nonché mandare qualche tagliagole ad islamizzare le repubbliche centroasiatiche alleate della Russia in cui i cinesi sognano di far passare le loro vie della seta (quella di mare sarà ben difficile espletarla tra i conflitti nel Mar della Cina, il controllo di Aden e Gibuti conseguenti la soppressione degli houti e l’installazione di un governo sunnita Saudi-friendly) e quindi eccovi servito, ricco ed invitante, il famoso “nuovo secolo americano”. Il poco più del 4 per cento della popolazione mondiale potrà continuare a beneficiare del 22 per cento del PIL mondiale. Anche questa volta, l’Eurasia non si farà. Enjoy?
Pubblicato sul blog dell’autore il 29 novembre 2015.
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Note
[2] Geographical Pivot of History (1904)
[3] «Chi controlla il rimland [rim=orlo, rimland: le terre sull’orlo del bordo euroasiatico] controlla l’Eurasia; chi domina l’Eurasia controlla i destini del mondo» (N. J. Spykman, The Geography of Peace, Harcourt, Brace and Company, New York, 1944)
[4] http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=49182 . L’opera citata è The Great Chessboard (c’è anche in italiano ma è difficile da trovare)
[5] L’Afghanistan è un’altra delle grandi invenzioni dei geografi politici inglesi. Impegnati in quel lungo braccio di ferro geopolitico coi russi che venne chiamato “il grande gioco”, dopo aver tentato inutilmente nel 1839 e nel 1878 di impossessarsi di quelle terre, anche per impedire ai russi di possedere il centro dell’Eurasia, stabilirono i confini del nuovo soggetto nel 1893, separando con la linea Durand (l’attuale confine afghano-pakistano) le tribù pashtun. Dal 1839 ad oggi, inglesi, russi, sovietici, americani hanno fatto le loro mosse su questo pezzo di scacchiera, ennesima dimostrazione che la geo di geopolitica non è sensibile al tempo.
[6] Monarchia sunnita che governa su maggioranza sciita. Sede della V flotta USA. Per sedare la rivolta, l’Arabia Saudita manda il suo esercito.
[9] Foreign Affairs, La Stampa (a firma Molinari qualche giorno prima che ne diventasse, inaspettatamente, direttore), Corriere della Sera, New York Times. Trovate tutti i link in fondo al paragrafo. Poiché è improbabile che tutta la stampa si sia volta sincronicamente verso le stesse fonti, si deve ipotizzare un “lancio stampa” sincronico da unica fonte? “Shaping the opinion” si chiama, dar forma alle opinioni.
[14] Economista famoso, tra l’altro, per aver capito che il capitalismo si vivifica con cicli di distruzione che permettono nuova creazione. La versione micro è l’obsolescenza programmata.
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