Banlieue parigine: tra estremismo,odio sociale/razziale e violenza

nov 19, 2015 0 comments
Di Adriano Scianca
Accade periodicamente: di tanto in tanto finisce sotto i riflettori la “cosa” chiamata banlieue. Per esempio stamattina, quando il sobborgo a nord di Parigi di Saint-Denis, ex cintura operaia “rossa”, si è svegliato in stato di guerra. Ma la guerra, da quelle parti, non se n’è mai davvero andata.
Il primo brusco risveglio, a proposito di questa parte di Francia che non è più Francia, risale esattamente a 10 anni fa. Il termine banlieue è infatti diventato noto al pubblico italiano in occasione delle rivolte del 2005, iniziate a Clichy-sous-Bois per la morte accidentale dei due adolescenti inseguiti dalla polizia. Pochi chilometri a nord di Parigi, Clichy-sous-Bois è un agglomerato in cui all’epoca vivevano più di 28mila persone appartenenti a trentasei etnie differenti. In 20 giorni si conteranno8.720 auto date alle fiamme e 2.599 arresti. Si calcola che in tutto il 2005 furono date alle fiamme circa 45mila auto. A metà novembre, la polizia francese stabilì che la violenza in Francia era tornata a livelli “normali”, in quanto le auto bruciate di notte rientravano nella media pre-rivolte di un centinaio per sera.
Sempre del 2005 è un altro evento piuttosto emblematico: è l’8 marzo, quando durante una manifestazione studentesca vari studenti vengono pestati e derubati da giovani di origine araba venuti dalle periferie. La polizia parlò di circa700/1000 ragazzi venuti essenzialmente da Seine-Saint-Denis (appunto) con il solo scopo di compiere razzie e violenze. È un meccanismo abbastanza tipico, visto spesso all’opera anche in Italia: ci si accorge di un certo fenomeno sociale solo quando finiscono coinvolte certe scuole inevitabilmente frequentate dai figli dei politici, dei giornalisti, degli intellettuali. In quel caso fu Le Monde ad alzare il sipario sulla vicenda, con un articolo in cui si intervistavano vari ragazzi delle banlieue pronti a confessare candidamente le motivazioni razziste delle loro aggressioni. «Se sono andato in piazza non era per la manifestazione ma per prendere telefonini e picchiare la gente. Lì in mezzo c’erano dei buffoni, dei piccoli francesi con teste da vittima», dice il franco-tunisino Heikel, 18 anni. L’obbiettivo è tanto sociale quanto etnico. «È come se avessero scritto “vieni a prendere la mia roba” sulla fronte», spiega Patty, 19 anni, che chiosa: «Sono i neri che si vendicano del razzismo dei francesi e della polizia». Le Monde riporta altre testimonianze: «I bianchi guardano per terra perché hanno paura, perché sono dei vigliacchi», spiega un liceale di 19 anni. I bianchi, per questi ragazzi, sono caratteristicamente coloro che non sanno battersi e che non hanno la mentalità del clan. Abdel 18 anni, spiega che «neri e arabi fanno più figli, dunque tu non puoi sapere se colui che sta in piazza avrà un fratello più grande».
Ma non si è dovuto aspettare il 2005 per saggiare il tasso di esplosività dei nuovi ghetti etnici. La Francia, anzi, ha vissuto i suoi primi scontri inter-etnici fin dalla fine degli anni ’70. Pensiamo solo alla “estate calda” del 1981 e agli scontri a Vénissieux, Villeurbanne e Vaulx-en-Velin, tre comuni dell’area urbana di Lione a forte densità immigrata. All’epoca il conflitto nacque per un intervento della polizia contro i “rodei” dei giovani maghrebini, ovvero la loro abitudine di rubare auto e poi lanciarle a folle velocità, devastandole o incendiandole. Disordini su vasta scala sono avvenuti nel 1990 al quartiere Mas de Taureu di Vaulx-en-Velin e nel 1991 alla Cité des Indes di Sartrouville, nella banlieue di Parigi, e in quella di Val-Fourré, a Mantes-la-Jolie.
Ma che cosa è, in effetti, una banlieue? Il termine ha origini medievali: si tratta di un luogo (lieu) in cui vale il bando (ban) di un signore, con speciale riferimento ai territori attorno a una città che segnavano il limite fino al quale poteva spingersi l’autorità signorile. La parola assume connotazione dispregiativa a partire dal XIX secolo, quando si comincia a guardare alla periferia come il luogo in cui vive una popolazione vicina ma arretrata, non al passo con la modernità cittadina. Il termine “banlieusard” è attestato per la prima volta nel 1889, quando gli eletti di Parigi presero ad accusare i rappresentanti delle periferie di essere dei contadini reazionari. Per ironia della sorte, all’inizio la banlieue fu accusata di rappresentare la Francia rurale, il “paese profondo”, poco avvezzo al cosmopolitismo modernista della capitale.
Da decenni ormai, questi sobborghi hanno assunto la dimensione di veri e propri ghetti etnici, con la popolazione bianca letteralmente cacciata casa per casa e la creazione di una zona di non diritto dove le bande di strada fanno il bello e il cattivo tempo. La violenza nichilista e ormai la regola. SecondoWalter Laqueur «nel 2000 c’era ormai un migliaio di zone nei quartieri di immigrati dove la polizia non entrava più – a meno che naturalmente non si presentasse in forze – e allo stesso tempo si stimava che più della metà dei carcerati fosse di origine musulmana» (Gli ultimi giorni dell’Europa, Marsilio 2008).
Secondo i dati riportati dallo studioso Christophe Guilluy (Fractures françaises, Flammarion, 2010), tra il 1968 e il 2005, i giovani di origine straniera sono passati dall’11,5% al 18,1% in Francia, dal 16% al 37% nell’Île-de-France, dal 18,8% al 50,1% a Seine-Saint-Denis. In quest’ultimo dipartimento, i bambini di cui entrambi i genitori sono nati in Francia sono passati, nello stesso periodo, da 41% al 13,5%. Sempre tra il 1968 e il 2005, in molti comuni dell’Île-de-France la percentuale di giovani di origine straniera è cresciuta su livelli analoghi: a Clichy-sous-Bois è passata dal 22 al 76%, ad Aubervilliers dal 23 al 75%, a La Courneuve dal 22 al 74%, a Grigny dal 23 al 71%, Pierrefitte-sur-Seine dal 12 al 71%, a Garges-lès-Gonesse dal 30 al 71%, a Saint-Denis dal 28 al 70%, a Saint-Ouen dal 19 al 67%, a Sarcelles dal 20 al 66%, a Bobigny dal 17 al 66%, a Stains dal 21 al 66%, a Villiers-le-Bel dal 21 al 65%, a Épinay-sur-Seine dal 12 al 65%, a Mantes-la-Jolie dal 10 al 65%, a Pantin dal 14 al 64%, a Bondy dal 16 al 63%, ai Mureaux dal 18 al 62%, a Sevran dal 19 al 62%, a Trappes dal 9 al 61%.
Sulle cause del degrado socio-culturale delle banlieue si e molto discusso. Ovviamente va per la maggiore il pietismo sociologgizzante. I dati, tuttavia, ci portano in tutt’altra direzione. Secondo l’inchiesta Immigrés et descendants d’immigrés en France condotta dall’Insee (l’Istat francese), negli ultimi anni è stato in media il 30% dei figli di immigrati africani a uscire dal sistema scolastico senza la maturità, il doppio rispetto ai discendenti di francesi non immigrati. Inoltre il numero dei discendenti degli immigrati africani disoccupati è triplo rispetto ai figli dei francesi non immigrati: in particolare, cinque anni dopo la fine degli studi, il 29% contro l’11%. Le ragioni? Persino gli statistici transalpini finiscono per ammettere che la sociologia non può spiegare tutto: «Il livello del diploma, le origini sociali e il luogo di residenza possono giustificare al 61% il divario, che per il resto rimane inesplicato». Anche la difficoltà economica, pure spesso reale, non aiuta a capire: con il passare delle generazioni la condizione sociale migliora ma la conflittualità aumenta. La seconda generazione, infatti, vive meglio di quella che l’ha preceduta. Il tasso di povertà è sceso dal 37 al 20%. Un terzo dei figli di immigrati nella fascia d’età 35-50 anni svolge un lavoro più qualificato del padre alla stessa eta. Sono meno numerosi a lavorare come operai (42% contro il 66%). E il 14% sono “cadres” (dirigenti di primo livello) contro il 4% dei genitori. Insomma, la spiegazione economicista (la conflittualità come figlia della miseria) non funziona.
Come nota lo studioso Guilluy, già il governo Jospin (1997-2002) aveva cercato di migliorare le condizioni di vita delle banlieue intervenendo contro la disoccupazione. «Sfortunatamente, i buoni risultati in materia di occupazione non ebbero alcuna incidenza sul tasso di delinquenza [delle banlieue], che al contrario è esploso proprio in quel periodo». Del resto altre comunità egualmente o forse più svantaggiate non danno gli stessi problemi e anche nella stessa popolazione maghrebina delle banlieue le ragazze, pure cresciute nello stesso contesto sociale degradato dei loro coetanei maschi, dimostrano una capacita di ascesa sociale ben diversa. Anche il continuo battersi il petto dei media mainstream per il preteso “abbandono” dei quartieri sensibili fa a pugni con la realtà. Il sociologo Dominique Lorrain ha realizzato uno studio comparativo sugli investimenti pubblici nel quartiere di Hautes-Noues, a Villiers-sur-Marne, e quelli nella periferia di Verdun. Il livello di povertà dei due quartieri è analogo, ma il primo viene classificato come “sensibile”, appunto per la forte e irrequieta presenza di immigrati. Ebbene, si scopre intanto che il reddito degli abitanti di Hautes-Noues è del 20% superiore a quello dei residenti a Verdun. Contando gli investimenti pubblici spesi per i due quartieri, inoltre, Lorrain ha calcolato come lo Stato abbia investito ben 12.450 euro per abitante a Hautes-Noues contro gli 11,80 euro per abitante di Verdun. Insomma, gli investimenti pubblici nel quartiere “sensibile” sono mille volte superiori rispetto a quello più povero, più decentrato e più sfortunato che tuttavia ha il torto di non attirare l’attenzione di sociologi, giornalisti e politici. Nicolas Sarkozy, all’Université du Medef del 2004, ebbe l’impudenza di dichiarare: «Il figlio di Nicolas e Cécilia ha meno bisogno di essere aiutato del figlio di Mohamed e Latifa». L’85% delle famiglie povere di Francia non vive nei quartieri “sensibili”, ma questi poveri non fanno notizia, non interessano ai sociologi. Scrive Guilluy: «I quartieri sensibili non rappresentano che il 7% della popolazione, ma la loro influenza mediatica, culturale e ideologica è considerevole». Senza contare che, di regola, i poveri bianchi evitano di aprire il fuoco sugli avventori dei ristoranti. Il che, comunque, non è poco.

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