Di Alessandra Benignetti
Se sono in molti e da più parti ormai a bollare come discutibili le scelte occidentali in Libia, e ad evidenziare la parte di responsabilità che queste politiche hanno avuto nel provocare la diffusa instabilità regionale che ha favorito la diffusione dei gruppi jihadisti e dello stesso Stato Islamico dall'altra parte del Mediterraneo, oggi lo stesso ragionamento viene da molti applicato anche ai Balcani, dove l'intervento occidentale, secondo alcuni analisti, ha contribuito a spazzare via il mosaico etnico culturale della ex-Jugoslavia, per lasciare spazio alla radicalizzazione di alcune frange della popolazione.
Le comunità wahabite bosniache, come quelle del villaggio salafita di Gorja Maoca, e le circa 20 cellule terroristiche, che secondo un reportage de l’Espresso, sarebbero attive nel reclutamento e addestramento dei miliziani dello Stato Islamico in Bosnia-Erzegovina e su tutto il territorio dei Balcani, possono essere considerate infatti, in parte, come una conseguenza del conflitto del 1992-1995, che ha portato le élites islamiche fondamentaliste a radicarsi nelle istituzioni del Paese. Allo stesso modo l’intervento NATO del 1999 in Kosovo, ha prodotto una nazione che fin dalla proclamazione dell’indipendenza, parzialmente riconosciuta a livello internazionale, nel 2008, è stata caratterizzata da istituzioni politiche deboli, instabili e corrotte, che hanno rappresentato in questi anni il terreno fertile per la fioritura di ogni tipo di traffici e di contrabbando, e per lo sviluppo, tramite le Ong musulmane, di un radicalismo islamico al quale oggi, le stesse istituzioni cercano di far fronte con scarso successo.
Così, secondo quanto afferma un lungo reportage sul terrorismo pubblicato dal quotidiano croato Jutarnij list, che cita fonti dei servizi segreti di Zagabria, una “rete solida” di gruppi jihadisti sarebbe attiva ormai da anni nei Balcani, ed in particolare, in Bosnia, Albania e Kosovo. Proprio questi Paesi, infatti, sono quelli che, subito dopo i Paesi arabi, forniscono il più alto numero di combattenti alle fila di Daesh. Con 92 cittadini partiti per la Siria solamente durante il 2015, la Bosnia è la quarta nazione al mondo per numero di miliziani partiti per unirsi ai jihadisti dell’Isis. Subito dopo c’è il Kosovo, da dove sono partiti durante quest’anno 83 combattenti. E dove, a partire dal 2011, hanno fatto ritorno dai teatri operativi di Daesh in Siria e in Iraq, ben 120 miliziani kosovari.
Il portavoce della polizia kosovara Baki Keljani, ha assicurato che queste persone sono tenute sotto controllo e che dopo gli attentati di Parigi, anche in Kosovo sono state rafforzate le misure di sicurezza. Inoltre, il ministro dell’Interno di Pristina ha firmato un’ordinanza con cui è stata revocata la licenza a 16 Ong musulmane “sospettate di avere legami con reti terroristiche” e di essere coinvolte sia nella propaganda di idee estremiste, sia nel reclutamento di giovani. Ma il pericolo per la sicurezza dato dai combattenti di ritorno nei Balcani sembra tutt’altro che trascurabile e, soprattutto, sembra essere da tempo una realtà consolidata. Solo qualche giorno fa, scritte inneggianti allo Stato Islamico e all’Uck sono apparse nella città kosovara di Kosovska Mitrovica.
La situazione in Albania, poi, non risulta essere migliore, con 140 cittadini albanesi partiti per la Siria come foreign fighters, di cui 43 hanno già fatto ritorno in territorio albanese. Il Paese ha alzato il livello di allerta e rafforzato i controlli di sicurezza alle proprie frontiere. Così come hanno fatto anche Serbia e Montenegro, che pure non sono esenti dal fenomeno dei combattenti di ritorno. I Balcani, si confermano quindi il più grosso hub di reclutamento e smistamento di terroristi in Europa, a pochi kilometri di distanza dalle frontiere italiane. Che, nonostante le decine di arresti effettuati nei mesi scorsi, rappresenta sempre più una minaccia per la nostra sicurezza e per quella del continente europeo.
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