Di Alessandro Campi
Dalle frontiere incondizionatamente aperte nel segno della fratellanza tra i popoli alla loro chiusura sulla spinta della paura il passo è stato decisamente breve. Spirito di Schengen, addio.
Ieri si ragionava su come accogliere tutti i profughi dalle guerre mediorientali ed africane, senza badare alla loro nazionalità o fedina penale e senza sottoporli a umilianti ispezioni, oggi si discute su come ripristinare severi controlli negli spostamenti da un Paese all’altro anche all’interno dell’Unione europea, facendo attenzione al passaporto e alla fede dichiarata. Si temono le infiltrazioni degli jihadisti stranieri, ma forse non ci si fida più nemmeno dei cittadini europei.
Si è confermata, dopo la tragedia che ha colpito la Francia., una regola antica della vita sociale: un qualunque eccesso produce prima o poi il suo esatto contrario, spesso nelle stesse persone. Come la troppa libertà nei costumi scatena alla lunga irrigidimenti moralistici (i peggiori censori sono stati libertini), così il pietismo umanitario versi i migranti visti come l’avanguardia della nuova umanità non poteva che sfociare nel diffuso sentimento di sospetto e avversione che oggi si respira nei confronti di chiunque porti anche soltanto una barba troppo lunga. Ieri tutti pronti ad ospitare i rifugiati nelle proprie abitazione, adesso quelle stesse case hanno la porta ben sbarrata.
Quante stranezze, quali improvvise giravolte, difficili da spiegare! Quelli che oggi invocano lo spirito di vendetta, annunciano di voler essere spietati contro i nemici, denunciano il fanatismo religioso e si ergono a difensori della loro comunità nazionale minacciata nei suoi valori, insomma i socialisti francesi, sono gli stessi che per anni hanno predicato la politica delle braccia aperte, inneggiato alla pace universale, detto di non voler confondere la religione con la politica e considerato il richiamo alle proprie radici nazionali l’anticamera della xenofobia.
Che dire poi di quegli idealisti e fautori dei diritti umani che sino all’altro ieri davano del criminale a Putin e che adesso, convertirtisi alla più cinica Realpolitik, lo vogliono alleato nella lotta contro il terrorismo? O nella loro ipocrita doppiezza sperano solo che faccia il lavoro sporco (e sanguinoso) che repelle alla nostra coscienza?
La Francia che oggi chiede aiuto e solidarietà per essere stata attaccata direttamente è lo stesso Paese che per anni – poco importa se al potere era la destra o la sinistra – si è mossa sulla scena internazionale in modo solitario, secondo una logica da potenza post-coloniale interessata solo al proprio tornaconto, come nel caso degli interventi militari in Mali, in Libia e in Siria. Il problema è che le alleanze o amicizie politiche non funzionano in questo modo. Averlo scoperto in modo così doloroso non riduce le responsabilità per ciò che si è fatto nel passato. Si deve solo sperare che la lezione sia servita a qualcosa.
Ma le contraddizioni, sulle quale bisogna interrogarsi anche se il momento può sembrare quello poco appropriato, non si fermano qui. Prendiamo il caso del Belgio. Colpisce, in primis simbolicamente, scoprire che il terrorismo si è di fatto insediato a pochi metri dai palazzi del potere europeo. Ma colpisce ancora di più il fatto che un paese possa essere burocraticamente ordinato, all’apparenza avanzato e civile, persino un modello di convivenza, pur risultando, alla prova dei fatti, socialmente e culturalmente disarticolato, istituzionalmente fragile. Lassista, più che tollerante. Quando, nel recente passato, il Belgio marciava economicamente non avendo neppure un governo qualcuno lo ha additato ad esempio di come nel futuro si potrà tranquillamente fare a meno dello Stato e della politica. Ma poi è proprio allo Stato, ai suoi apparati e ai suoi simboli (la bandiera, l’inno nazionale) che ci si aggrappa quando si scopre di abitare in quartieri dove non vige alcuna legge e dove i bravi ragazzi della porta accanto organizzano attentanti e si fanno esplodere.
Risolvere queste contraddizioni non sarà facile. Ma che almeno si provi, nella concitazione del momento, a non commettere errori grossolani. Tipo fare proprio il punto di vista degli islamisti senza nemmeno rendersene conto.
Prendiamo ad esempio la tendenza, che ormai si fa sempre più strada nell’opinione pubblica euro-occidentale e nel modo di ragionare dei nostri governanti, a definire l’identità pubblico-civile di chiunque abbia radici in un Paese classificato in senso lato come musulmano (si tratti dell’Algeria o della Malesia) a partire dalla sua supposta identità religiosa, trascurando ogni altra dimensione, culturale o sociale. È una semplificazione che se applicata a noi stessi – nel senso di essere definiti genericamente o prioritariamente “cristiani” – riterremmo arbitraria e infondata. Che il modo di essere e di vivere di una persona debba essere interamente plasmato dal suo credo religioso è esattamente ciò che pensano gli integralisti, convinti anche che questo stesso mondo si divida in “fedeli” e “infedeli”. Se dietro ogni marocchino o siriano o iracheno o maliano non vediamo altro che un islamico, per di più osservante e fanatico, ecco un modo involontario per aderire al pensiero dei radicali.
Così come è un errore pensare che il mondo islamico sia un blocco unitario, senza differenze o particolarità al suo interno solo perché c’è un credo religioso che fa da collante. L’idea di una comunità di fedeli tendenzialmente universalistica, che un giorno verrà unificata sotto la formula politica del Califfato, abolendo Stati, appartenenza nazionali e varietà di costumi, è ancora una volta tipica dell’ideologia islamista. L’Italia, per storia e cultura, non è il Messico, sebbene entrambi Paesi in senso lato cattolici. Perché si deve pensare che Egitto e Indonesia, con i secoli di storia che hanno alle spalle, le loro abissali differenze di cultura e mentalità, la complessa e difforme articolazione sociale che presentano, non siano altro che paesi islamici, come tali assimilabili l’uno all’altro?
Forse prima di agire in modo solo apparentemente nerboruto (ma davvero qualcuno crede che in Siria sia rimasto qualcosa da bombardare?) bisognerebbe fermarsi e riflettere, nella consapevolezza che sia la politica fondata sulla paura sia quella basata sull’amalgama, gli stereotipi e le semplificazioni sono fatalmente destinate a generare decisioni improvvide e inefficaci.
* Editoriale apparso sui quotidiani “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 21 novembre 2015.
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