Di Giorgia Grifoni
Raggruppate, condotte via dal loro villaggio in fiamme e rinchiuse in un campo. Al mattino, utilizzate per i lavori domestici; alla sera, legate le une vicino alle altre. E poi svegliate nel cuore della notte, e stuprate. E’ ciò che emerge dalle testimonianze raccolte dall’AFP di alcune sopravvissute alla schiavitù sessuale nei campi della contea di Mayom, porzione settentrionale dello stato di Unity, nel Sud Sudan. Lì, una guerra civile che dura da quasi due anni combattuta dall’esercito governativo contro i ribelli dell’ex vicepresidente Riek Machar sta decimando la popolazione civile. Ma alle donne tocca un destino ben peggiore.
L’ultimo caso di schiavitù sessuale – dopo quello delle “Chibok girls” nigeriane, bottino di guerra dei miliziani di Boko Haram, e dopo le yazide irachene vittime dell’Isis – avviene nel più giovane stato del mondo, straziato da una lotta di potere dai contorni tribali: lo scorso aprile il presidente Salva Kiir ha lanciato il suo Sudan People’s Liberation Army [SPLA – ora esercito del Sud Sudan, ndr] contro le forze ribelli del suo vecchio rivale politico Riek Machar nelle zone del nord-est abitate dall’etnia nuer, zone ricche di pozzi petroliferi. Lì, l’antico conflitto tra nuer e dinka ha assunto contorni drammatici, con le donne reduci dalla distruzione dei loro villaggi costrette a servire sessualmente l’esercito e il nugolo di milizie a lui fedeli.
Le prime notizie delle violazioni commesse dai soldati di Juba erano state diffuse qualche mese fa, quando le Nazioni Unite, presenti nello stato di Unity con parte del contingente di 8 mila caschi blu della missione Unmiss, avevano pubblicato un report nel quale si parlava di “una diffusa violazione dei diritti umani” basata sui racconti di 115 tra vittime e testimoni della carneficina in atto nella contea di Mayom, quella a cui i cooperanti stranieri si riferiscono come “il buco nero dell’informazione”. Le voci dei sopravvissuti grondavano di torture, stupri di gruppo e persino di donne che, abusate dai soldati, erano state rinchiuse nelle loro capanne e bruciate vive.
Ora un reportage dell’AFP rivela alcuni dettagli ben più macabri: le donne, uniche sopravvissute dei raid dell’esercito sud-sudanese sui villaggi dello Unity, vengono riunite e condotte verso la contea di Mayom. “Lì – ha rivelato un ricercatore sui diritti umani intervistato dall’AFP – nessuno sa cosa succede. In tutte le contee meridionali dello Unity è lo stesso: quelle che riescono a fuggire sono fortunate, le altre vengono violentate, rapite o uccise“. “Il rapimento di donne – ha concluso il ricercatore – sembra essere sistematico. Potrebbe durare un giorno, o di più. O per sempre”.
Alcune donne sono riuscite a scappare, però, e a raccontare gli orrori dei campi per schiave sessuali. Nyambena, 30 anni, madre di cinque figli, era stata rapita dai soldati dopo l’attacco al suo villaggio nella contea di Rabkona. Dopo aver visto i militari assassinare tutti gli uomini, era stata condotta con altre 40 donne della zona verso la contea di Mayom. Lì al mattino svolgeva le mansioni più disparate: trasportare viveri al campo base, andare a prendere l’acqua al pozzo, pulire. Di notte, veniva legata in una stanza assieme alle altre donne. “Quando uno dei soldati voleva fare sesso – ha raccontato – ci scioglieva e ci portava via. Poi, quando tutto era finito, ci riportavano indietro e ci legavano di nuovo. In media, venivamo violentate quattro volte a notte. Quelle che si ribellavano, semplicemente sparivano”.
Un esperto militare ha stimato che “migliaia di donne” sono stati rapite dall’inizio dell’offensiva. Troppo poche, forse, perché la comunità internazionale – creatrice del Sud Sudan – si occupi di questo angolo di mondo dimenticato dalle agende internazionali.
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