Intervista di Adriano Scianca a Stefano Fabei
Di Adriano Scianca
Hitler non voleva sterminare gli ebrei, solo espellerli. Fu il Gran Muftì di Gerusalemme a suggerirgli di “bruciarli”. Sta facendo discutere la frase di Benjamin Netanyahu. Che sembra riscrivere la storia ufficiale (non in modo sostanziale, peraltro: la “versione di Bibi” introduce solo il nuovo elemento della primogenitura dell’idea di Olocausto attribuita ai palestinesi). Ma cosa c’è di vero in quelle parole? E chi era il gran Muftì di Gerusalemme? Lo abbiamo chiesto allo storico Stefano Fabei, autore di alcuni fondamentali saggi sulla politica araba del fascismo, tra cui anche una biografia dello stesso Gran Muftì.
Stefano Fabei |
Entriamo subito nel vivo: la recente opinione espressa da Netanyahu, secondo la quale il Gran Muftì di Gerusalemme fu l’ispiratore dell’Olocausto, è vera o quanto meno verosimile?
Si tratta di un’affermazione strumentale e priva di fondamento storico; fra l’altro, tutti i tentativi di asservire la storia alla politica sono falliti. Che il Gran Muftì negli anni Venti e Trenta abbia guardato con simpatia al fascismo e al nazionalsocialismo è cosa nota e illustrata a fondo nei miei tre volumi editi da Mursia fra il 2002 e il 2005 (Il fascio, la svastica e la mezzaluna; Una vita per la Palestina. Storia del Gran Mufti di Gerusalemme; Mussolini e la resistenza palestinese); altrettanto noti i suoi incontri con il Duce – primo sostenitore con armi e denaro, 15 milioni di euro ai valori attuali, della Resistenza palestinese al sionismo – e con il Führer, con i quali collaborò non per affinità ideologica ma per una scelta di realpolitik determinata dal fatto di condividere gli stessi nemici dell’Asse, Gran Bretagna e Francia in primis, entrambe potenze coloniali. Se, per inciso, non esiste un documento nel quale Hitler abbia messo chiaramente nero su bianco «l’ordine» di sterminare gli ebrei, ancor meno provabile è un coinvolgimento del Gran Muftì nella programmazione e nell’attuazione dell’Olocausto. Quanto all’«antisemitismo» del leader palestinese, tale affermazione è priva di senso, essendo gli arabi semiti come gli ebrei.
La storia, intesa come disciplina scientifica, non deve essere né falsificata né usata a fini politici; deve cercare di avvicinarsi alla realtà, ricostruendola sulla base dei documenti.
Chi era il Gran Muftì di Gerusalemme?
Muhammad Amīn ‘Ālī al-Husaynī (1895-1974) è stato un esponente di primo piano del mondo arabo e di quello islamico, il fondatore del movimento nazionale palestinese. Possiamo identificare la sua storia con quella della sua patria e del suo popolo, di cui fu il leader incontrastato,
seppur discusso, per più di trent’anni. Gli obiettivi per cui lottò fino al secondo dopoguerra furono l’unità e l’indipendenza del mondo arabo, la solidarietà islamica e soprattutto la liberazione della Palestina dagli inglesi e dal sionismo. Questo fatto lo portò machiavellicamente a schierarsi di volta in volta al fianco di chi – da Mussolini a Hitler, da ‘Abd al-Nāsser a re Husayn di Giordania – sembrò poter contribuire al suo progetto. Fu così che strinse contemporaneamente la mano a Malcom X, leader dei Black Muslims, e a Chou En-Lai, Primo ministro della Cina comunista. Nella dottrina dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) e nella carta del Consiglio nazionale palestinese non c’è quasi niente che non sia stato già concepito da lui o da lui indirettamente ispirato. La sua esistenza, più di quella di qualsiasi altro leader palestinese, ‘Arafāt a parte, ha incarnato l’essenza originaria del movimento nazionale palestinese e della sua lunga lotta per l’indipendenza.
Quali furono le differenze fra la politica mediorientale nazionalsocialista e fascista?
Il Terzo Reich, nei riguardi del mondo arabo in generale, ebbe obiettivi prevalentemente economici e culturali. Il fascismo invece cercò di sviluppare nell’area mediterranea una politica di influenza economica, culturale e politica soprattutto per contrastare la Francia e la Gran Bretagna. Per quanto riguarda in particolare il Medio Oriente, Roma aspirò al controllo su una vasta area comprendente la penisola araba, l’Iraq, la Siria, la Palestina e l’Egitto. Tali ambizioni avrebbero potuto trovare soddisfazione solo contro la resistenza araba e, soprattutto, di Francia e Gran Bretagna, lo ripeto, due potenze allora coloniali.
Il 24 ottobre 1936 la diversità di obiettivi tra Roma e Berlino indusse il Führer a dichiarare a Galeazzo Ciano, nostro ministro degli Esteri, che il Mediterraneo era un «mare italiano», pertanto qualunque modifica futura nell’equilibrio di questa parte del mondo avrebbe dovuto andare a favore dell’Italia, così come la Germania doveva avere libertà di azione nell’est europeo e verso il Baltico. Orientando i due dinamismi in queste opposte direzioni, non ci sarebbe mai stato un urto d’interessi tra le potenze fasciste. In sintesi, per Hitler, i Paesi arabi sotto controllo francese e inglese facevano parte, quasi nella loro totalità, della sfera d’influenza italiana. Se l’Asse avesse vinto la guerra e i patti tra il Führer e il Duce fossero stati osservati, l’Italia avrebbe esercitato sul «Mare Nostrum» la propria egemonia, dal Marocco all’Iraq. I tedeschi, da parte loro, avrebbero forse rivendicato come propria sfera di influenza i Paesi a oriente, dall’Iraq all’Iran, all’Afghanistan, all’India, dove però anche il Giappone aspirava a esercitare il proprio controllo.
L’influenza delle idee fasciste o nazionalsocialiste in ambito arabo-musulmano si ferma al 1945 o anche dopo la guerra le rivoluzioni nazionaliste europee degli anni Trenta sono state fonte di ispirazione per quei popoli?
Molti nel mondo arabo e islamico guardarono con interesse al fascismo italiano e al suo Duce, autoproclamatosi «Spada dell’Islam», ma ancor più al nazionalsocialismo, se non altro per il fatto che la Germania non aveva avuto colonie in quell’area e aveva mostrato grande amicizia nei confronti dell’Islam ancora prima dell’ascesa al potere di Hitler.
Negli anni Trenta si svilupparono movimenti e organizzazioni arabe, soprattutto giovanili, come il Partito del Giovane Egitto di Ahmad Husayn e le Falangi libanesi di Pierre Jumayyil tra i primi, le Camicie verdi e le Camicie azzurre, entrambe egiziane, nonché varie associazioni scoutistiche, tra le seconde, che guardarono al fascismo come modello. Il nazionalsocialismo ispirò il Partito nazionale sociale siriano di Antūn Sa‘āda, le Camicie di ferro a Damasco e ad Aleppo, al-Futuwwa in Iraq. La simpatia per i regimi totalitari ha continuato a esistere nel dopoguerra presso molti intellettuali e militari, oltre che in consistenti fasce di popolazione. Qualcuno in Occidente ha voluto vedere tratti fascistizzanti nella rivoluzione libica che portò al potere Gheddafi in Libia nel 1969, o Khomeyni in Iran dieci anni dopo, ma a mio parere si tratta di forzature.
La categoria di «islamofascismo» che molti utilizzano da qualche anno a questa parte per definire al-Qaeda o l’ISIS ha una qualche validità storica?
No, nel modo più assoluto, sempre a parer mio. Il fascismo e il nazionalsocialismo sono fenomeni politici storicamente conclusi e irripetibili; l’Islam è una religione e anche, secondo certe interpretazioni, una concezione dell’uomo e del mondo in cui si fondono, e devono fondersi, religione e politica. La categoria di «islamofascismo», forse suggestiva alle orecchie di qualcuno, è storicamente priva di fondamento, una assurdità.
LO STORICO – Stefano Fabei (Passignano sul Trasimeno, 1960) insegna all’Istituto di Istruzione Superiore “Giordano Bruno” di Perugia. Già autore di saggi per «Studi Piacentini» e «Treccani Scuola», collabora a «I sentieri della ricerca», «Eurasia», «Storia in rete» e «Nuova Storia Contemporanea», «Rassegna siciliana di storia e cultura». Ha scritto: La Politica maghrebina del Terzo Reich (1988), Guerra santa nel Golfo (1990); Guerra e proletariato (1996); Il Reich e l’Afghanistan (2002); Il fascio, la svastica e la mezzaluna (2002), tradotto in Francia nel 2005 (Le Faisceau, la Croix gammée et le Croissant); Les arabes de France sous le drapeau du Reich (2005); Una vita per la Palestina. Storia del Gran Mufti di Gerusalemme (2003), Mussolini e la resistenza palestinese (2005), I cetnici nella Seconda guerra mondiale (2006), Carmelo Borg Pisani. Eroe o traditore? (2007), La «legione straniera» di Mussolini (2008), Operazione Barbarossa. 22 giugno 1941 (2009); I neri e i rossi. Tentativi di conciliazione tra fascisti e socialisti nella Repubblica di Mussolini (2011), Fascismo d’acciaio. Maceo Carloni e il sindacalismo a Terni, 1920-1944 (2013); Il generale delle Camicie nere (2013); «Tagliamento». La legione delle Camicie nere in Russia 1941-1943(2014); Storia del Marocco moderno (2014); La Grande guerra e la rivoluzione proletaria (2015).
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