Di Emanuela Costantini
La figura di Nae Ionescu, poco nota fuori dalla Romania, è stata dopo il 1989 al centro di un forte interesse in patria. Intellettuale controverso, è stato giudicato contraddittoriamente un fine pensatore e un filosofo poco originale, un formatore di grandi intellettuali e un “cattivo maestro”, un autentico nazionalista e l’“eminenza grigia” della Guardia di Ferro.
Nae Ionescu (Brăila, 1890-Bucarest, 1940) fu indubbiamente un filosofo, per formazione e percorso biografico. Completò i suoi studi tra Bucarest, dove ebbe come maestri grandi studiosi quali Nicolae Iorga e Constantin Rădulescu-Motru, e la Germania, dove conseguì il dottorato ed ebbe la possibilità di conoscere Edmund Husserl. Tornato nel suo Paese, entrò a far parte dell’élite intellettuale della capitale, collaborando a diverse riviste (tra le quali il giornale di cui divenne direttore, «Cuvântul» [La parola]); negli anni Venti gli venne conferita la cattedra di Logica e Metafisica all’Università di Bucarest. Fu grazie alla sua attività come docente e pubblicista che Ionescu divenne una delle voci più ascoltate e autorevoli della Romania di quegli anni, oltre che per la sua frequentazione con Carol II, re di Romania dal 1930, conosciuto quando era studente all’università, di cui diventò anche consigliere, salvo poi distaccarsene per divergenze circa il ruolo della monarchia in politica (1).
La fama di Ionescu e l’interesse per la sua vicenda biografica e il suo pensiero sono dovuti soprattutto all’influenza che esercitò su alcuni degli intellettuali più brillanti della Romania interbellica, tra i quali spiccano nomi di primo piano anche per la cultura internazionale, come Emil Cioran e Mircea Eliade. Un’influenza che, secondo alcuni, fu alla base dell’avvicinamento di questi e altri giovani studiosi romeni alla Guardia di Ferro, il movimento di estrema destra di orientamento spiritualista e di marca antisemita fondato da Corneliu Zelea Codreanu. Al di là di questo, appare tuttavia forse di maggiore interesse analizzare le modalità con cui questa influenza si esplicò, ripercorrendo il rapporto tra il filosofo e i suoi allievi.
Per comprenderlo, occorre partire dalla concezione che Ionescu aveva della filosofia. Se George Călinescu affermò nella sua monumentale storia della letteratura romena come Ionescu «non [avesse] personalmente e in linea di principio nessuna filosofia» (2), questa affermazione è corretta solo a patto di concepire la filosofia come una concezione sistematica del mondo. Per Ionescu, al contrario, era un metodo di conoscenza, una ricerca continua attraverso un procedimento maieutico. Per questo egli rifiutava anche la storia della filosofia, ritenendo – come sostiene Mircea Vulcănescu, uno degli allievi a lui più legati e autore di un ritratto biografico del maestro – che «ogni uomo è solo con il suo pensiero» (3). Questa concezione della filosofia come continua messa in discussione di concetti e idee comporta l’impossibilità di fissare il pensiero una volta per tutte e spiega anche perché Ionescu non abbia prodotto testi organici destinati alla pubblicazione, oltre agli articoli pubblicati sui periodici con i quali collaborava. Questo non significa che il pensiero di Ionescu sia riconducibile a un mero relativismo: partendo dal rifiuto del razionalismo cartesiano, egli recuperava il patrimonio di valori dell’ortodossia proponendo una concezione che attingeva all’esistenzialismo tedesco e allo slavofilismo russo. L’ortodossia era intesa come un deposito di esperienze interiori alle quali l’anima accedeva prima ancora dell’intervento della razionalità e che quindi costituiva la base del pensiero dell’uomo. Il patrimonio spirituale che derivava dalla fede non era però vissuto individualmente, bensì attraverso la mediazione della comunità dei fedeli (un concetto molto vicino alla sobornost’ degli slavofili) (4). Caratteristica della fede era perciò il non poter essere vissuta come esperienza individuale – aspetto che la distingueva dalla ragione.
Ad ogni modo, Ionescu non concepiva queste idee come patrimonio di conoscenze fissate una volta per tutte e soprattutto non intendeva l’insegnamento come semplice trasmissione di conoscenze a degli allievi, bensì come discussione di problemi aperti, in cui ciascuno è chiamato a dare il proprio contributo e la propria interpretazione, senza ricorrere a risposte predefinite. Come ricordava il suo allievo Mircea Eliade: «Nae Ionescu non parlava come un professore, non teneva una lezione o una conferenza. Iniziava una conversazione e si rivolgeva a noi direttamente […], proponendoci un’interpretazione e aspettando poi i nostri commenti. Avevi l’impressione che tutta la lezione fosse parte di un dialogo, che ognuno di noi fosse invitato a prendere parte alla discussione, a esprimere il proprio parere alla fine dell’ora. Comprendevi che ciò che diceva Ionescu non si trovava in nessun libro. Era qualcosa di nuovo, appena pensato e organizzato lì, di fronte a te, sulla cattedra» (5). Fu questo uno dei punti di forza della sua attività didattica, che consentì a lui più che ad altri di creare un gruppo di giovani che lo reputò un “maestro”, non dal punto di vista della condivisione di una concezione filosofica, ma come guida per la formazione di una visione del mondo. Se Ionescu venne considerato in effetti un punto di riferimento per una generazione, fu soprattutto perché il contatto con lui servì a «portare in superficie» (6) le convinzioni di ciascuno, di modo che camminasse «con le proprie gambe» (7). Non a caso non si può parlare di una vera e propria “scuola”: i suoi allievi elaborarono concezioni profondamente diverse tra loro, in alcuni casi persino antitetiche – basti pensare che uno dei più legati a lui era Mihail Sebastian, ebreo di convinzioni democratiche. Nonostante le differenti concezioni filosofiche e politiche e i diversi interessi culturali, alcuni dei giovani che avevano avuto Ionescu come professore continuarono a collaborare con lui anche dopo la fine della carriera accademica: tra essi ricordiamo Emil Cioran, oltre ai già citati Mircea Eliade, Mihail Sebastian e Mircea Vulcănescu, che firmarono diversi articoli su «Cuvântul».
Il gruppo di allievi formatosi intorno a Nae fu il nucleo forte della cosiddetta “giovane generazione”: intellettuali nati all’alba del XX secolo, negli anni Venti studenti universitari, alcuni di loro cominciarono a lavorare poco dopo come assistenti e talvolta anche come docenti. Provenivano da diverse regioni del Paese – alcuni, come Cioran, da quelle annesse alla Romania dopo la Prima Guerra Mondiale (il giovane Emil era nato in una cittadina transilvana). Ebbero la fortuna di entrare in contatto con il panorama culturale romeno proprio nel suo periodo probabilmente più fecondo e ricco di opportunità. Molti di loro ebbero anche la possibilità, attraverso le borse di studio messe a disposizione dallo Stato, di viaggiare in Europa e arricchire la propria formazione confrontandosi con grandi personalità della cultura – come, nel caso di Mircea Eliade, Giovanni Gentile.
Ciò che rese questo gruppo disomogeneo di intellettuali una “generazione” fu il fatto di condividere una condizione: quella di succedere culturalmente a chi aveva avuto come ideale di riferimento l’obiettivo storico dell’unificazione nazionale. Diceva Mircea Eliade nel 1965: «A differenza dei nostri predecessori, che nacquero e vissero nell’ideale della reintegrazione del popolo, noi non avevamo un ideale a portata di mano. Eravamo liberi, disponibili a ogni tipo di “esperienza”. […] Eravamo la prima generazione romena non condizionata nell’immediato da un obiettivo storico da realizzare» (8). Completata l’unità nazionale con l’acquisizione dei territori “irredenti” dopo la Prima Guerra Mondiale, i giovani intellettuali cresciuti alla scuola di Ionescu e di altri grandi pensatori si ponevano l’obiettivo di dare un’identità alla cultura romena e di trovarle una collocazione nel panorama europeo. Erano però “liberi” di decidere in che modo farlo, diceva Eliade, ovvero potevano proporre soluzioni diverse. Cionondimeno, all’interno della “giovane generazione” è comunque individuabile una corrente maggioritaria composta da allievi di Ionescu che avevano fatto propri alcuni aspetti del suo pensiero: l’antirazionalismo, la valorizzazione della dimensione spirituale e l’importanza della fede come base del patrimonio valoriale di una comunità. Nella cultura romena, questi ultimi andarono a rafforzare la componente critica nei confronti della recezione passiva di modelli e valori occidentali – imperniati sul positivismo in filosofia e sul liberalismo in politica – che in passato era rimasta minoritaria e aveva condotto la propria lotta contro la cultura ufficiale in nome del recupero della tradizione, identificata col mondo rurale. L’apporto innovativo degli intellettuali attivi nel periodo interbellico, che in buona parte derivava dall’influenza di personaggi come Ionescu, risiedeva nell’attribuzione alla tradizione di un significato nuovo, che affondava le proprie radici in valori spirituali. Se in Ionescu ciò comportava il recupero dell’ortodossia – che gli valse il titolo di “ortodossista” – nei suoi allievi assunse sfumature diverse e, in alcuni casi, anche più ricche rispetto a quelle del maestro. Da questo punto di vista, Eliade e Cioran sono tra le personalità più significative.
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