Di Giorgio Cosmacini
Alle tre e mezzo del mattino del 22 giugno 1941 l' esercito tedesco invase l' Unione Sovietica lungo un fronte di oltre tremila chilometri, dando inizio alla più grande e sanguinosa campagna militare della storia. Nel giro di poche settimane in Unione Sovietica sarebbero stati uccisi più di un milione di uomini, donne, bambini.
Nei giorni immediatamente precedenti l' invasione, Hitler lavorò a lungo con Goebbels, ministro dell' educazione e della propaganda, intorno al discorso da radiotrasmettere, annunciante l' avvio di quella «Operazione Barbarossa» che avrebbe dovuto, nei progetti dei due interlocutori, dare al popolo tedesco uno sterminato «spazio vitale» nell' est dell' Europa e che invece, nei fatti della storia, si bloccò nel rigido inverno alle porte di Stalingrado, lasciando poi dietro di sé uno sterminato cimitero di morti. Nel chiuso della cancelleria il Führer e il suo ministro non parlarono solo della «operazione chirurgica» che, a loro avviso, avrebbe estirpato dall' est europeo il «tumore canceroso del comunismo». Parlarono ancora di tumori, ma non in forma metaforica. Discussero infatti a lungo dei recenti progressi della ricerca medico-scientifica in Germania e di un' altra grande offensiva, che avrebbe dovuto portare a un' altra «soluzione finale»: quella della «lotta al cancro», una guerra che la scienza medica e la politica sanitaria del Terzo Reich si ripromettevano ovviamente di vincere, salvando così la vita di milioni di uomini, donne, bambini. Scienza e sanità , congiunte nel segno della croce uncinata, avrebbero salvato più vite umane di quante ne sacrificava la bellicosità nazista? E' un importante problema di storia delle idee, e delle pratiche medico-scientifiche, quello di ben valutare quale sia stato lo «stato dell' arte» nella lotta al cancro nel periodo precedente il grande gap che ha caratterizzato il «prima» e il «dopo» della rivoluzione terapeutica di metà Novecento e della successiva rivoluzione biotecnologica (che tuttora viviamo). Si tratta di rapportarsi, e riportarsi, ai celebrati o vituperati «anni Trenta» che rappresentarono per la medicina e la sanità italiane una sorta di vai-e-vieni tra l' esigenza di raccordarsi alla scienza e all' organizzazione di paesi più avanzati del nostro e l' istanza ideologica di un «autarchico» fare da sé. Scriveva nel 1938 il professor Nicola Pende, patologo medico alla Sapienza di Roma: «Uno dei fattori più importanti, che rientra nel campo della predisposizione costituzionale al tumore maligno, è il fattore razza». Firmatario nel luglio dello stesso anno del Manifesto della razza, che legittimava l' importazione dalla Germania, ma con apporti nostrani, del razzismo persecutorio contro gli Ebrei. Pende non incriminava - inaspettatamente! - la razza ebraica, bensì «la razza alpina che, come è noto, popola gran parte del massiccio montuoso al centro della Francia e della Svizzera e un po' anche la Baviera e l' Austria».
Che cosa avrebbe detto il cancelliere del Terzo Reich se fosse stato edotto di questa affermazione, fatta da un autorevole medico-scienziato dell' Asse, il quale indicava come «cancerofila» proprio la razza a cui egli - il Führer - apparteneva per nascita? Che l' ordine dato il 12 marzo 1938, di procedere con la forza all' Anschluss dell' Austria, sia stato, in Hitler, il frutto della cattiva coscienza di dover procedere alla bonifica precancerosa della sua patria d' origine? Sui rapporti, a senso e a controsenso, tra scienza e ideologia politica, considerate l' una un ambito statutariamente «neutrale», l' altra un ambito di pensiero tipicamente «di parte», è stato versato un fiume d' inchiostro. Pur restando ai margini di questo fiume, il problema di quei rapporti è riproposto dal libro La guerra di Hitler al cancro (Raffaello Cortina editore) che l' autore Robert N. Proctor, professore di storia della scienza alla Pennsylvania University, presenta nel «prologo» con l' asserzione «Questo è un libro sul fascismo e sulla scienza». Non si tratta affatto di un saggio revisionista. Gli orrori dei medici delle SS e di certa medicina sotto il nazismo sono noti. L' autore stesso premonisce il lettore: «Non avrei mai scritto questo libro se non avessi già esplorato i più nefandi aspetti dei crimini nazisti in ambito medico». Però assai meno noti sono gli aspetti medico-sanitari per cui il Terzo Reich si rivelò all' avanguardia in quelle politiche «salutiste» ed «ecologiche» - dalla messa al bando delle sostanze inquinanti fino alla martellante campagna contro il fumo - che oggi rappresentano il fiore all' occhiello di non poche democrazie avanzate. «I maggiori esponenti nazisti in ambito medico», scrive Proctor, «temevano che il tabacco potesse rivelarsi un rischio per la razza». Ed esemplifica: «Gli attivisti antifumo sottolineavano che mentre Churchill, Stalin e Roosevelt apprezzavano molto il tabacco, i tre principali leader fascisti d' Europa - Hitler, Mussolini e Franco - erano tutti non fumatori». Ma è solo un esempio: più in generale la scienza medica tedesca, negli anni del nazismo, non fu solo una cattiva scienza complice, ma fu anche una «buona scienza irresponsabile» e complessa, impegnata contro gli eccessi di medicalizzazione e di radiazioni ionizzanti, contro gli iperconsumi di giallo-burro e di alcool, contro i pericoli dell' asbesto e del fumo. «Il nazismo rappresenta senza dubbio il punto più basso della cultura morale del XX secolo», scrive Robert Proctor; però aggiunge che da molti «fu visto come una fonte di rigenerazione della sanità pubblica». Come in Italia il fascismo, noi possiamo rilevare che, al di qua delle Alpi, a parte le aberrazioni dell' eugenetica e a parte l' ideologia «ingenua» che contrapponeva la ruralizzazione nello stravillaggio ecologico all' urbanesimo della stracittà inquinata, i medici garanti della sanità della «stirpe» furono attivamente impegnati nelle campagne antitubercolari e convintamente partecipi della «bonifica integrale» antimalarica, intervento - quest' ultimo - fino allora il più massiccio e organico nella storia d' Italia. Essi interpretarono la «nuova medicina dell' Italia imperiale» come lotta alle malattie tropicali nelle terre dell' Impero e come lotta in Italia contro quella «malattia di carattere nazionale che è il cancro», definito «bolscevismo cellulare» o, con metafora più pacata, «malattia anti-autarchica».
FONTE:http://archiviostorico.corriere.it/2000/ottobre/25/TERZO_REICH_salutismo_potere_co_0_001025074.shtml
Che cosa avrebbe detto il cancelliere del Terzo Reich se fosse stato edotto di questa affermazione, fatta da un autorevole medico-scienziato dell' Asse, il quale indicava come «cancerofila» proprio la razza a cui egli - il Führer - apparteneva per nascita? Che l' ordine dato il 12 marzo 1938, di procedere con la forza all' Anschluss dell' Austria, sia stato, in Hitler, il frutto della cattiva coscienza di dover procedere alla bonifica precancerosa della sua patria d' origine? Sui rapporti, a senso e a controsenso, tra scienza e ideologia politica, considerate l' una un ambito statutariamente «neutrale», l' altra un ambito di pensiero tipicamente «di parte», è stato versato un fiume d' inchiostro. Pur restando ai margini di questo fiume, il problema di quei rapporti è riproposto dal libro La guerra di Hitler al cancro (Raffaello Cortina editore) che l' autore Robert N. Proctor, professore di storia della scienza alla Pennsylvania University, presenta nel «prologo» con l' asserzione «Questo è un libro sul fascismo e sulla scienza». Non si tratta affatto di un saggio revisionista. Gli orrori dei medici delle SS e di certa medicina sotto il nazismo sono noti. L' autore stesso premonisce il lettore: «Non avrei mai scritto questo libro se non avessi già esplorato i più nefandi aspetti dei crimini nazisti in ambito medico». Però assai meno noti sono gli aspetti medico-sanitari per cui il Terzo Reich si rivelò all' avanguardia in quelle politiche «salutiste» ed «ecologiche» - dalla messa al bando delle sostanze inquinanti fino alla martellante campagna contro il fumo - che oggi rappresentano il fiore all' occhiello di non poche democrazie avanzate. «I maggiori esponenti nazisti in ambito medico», scrive Proctor, «temevano che il tabacco potesse rivelarsi un rischio per la razza». Ed esemplifica: «Gli attivisti antifumo sottolineavano che mentre Churchill, Stalin e Roosevelt apprezzavano molto il tabacco, i tre principali leader fascisti d' Europa - Hitler, Mussolini e Franco - erano tutti non fumatori». Ma è solo un esempio: più in generale la scienza medica tedesca, negli anni del nazismo, non fu solo una cattiva scienza complice, ma fu anche una «buona scienza irresponsabile» e complessa, impegnata contro gli eccessi di medicalizzazione e di radiazioni ionizzanti, contro gli iperconsumi di giallo-burro e di alcool, contro i pericoli dell' asbesto e del fumo. «Il nazismo rappresenta senza dubbio il punto più basso della cultura morale del XX secolo», scrive Robert Proctor; però aggiunge che da molti «fu visto come una fonte di rigenerazione della sanità pubblica». Come in Italia il fascismo, noi possiamo rilevare che, al di qua delle Alpi, a parte le aberrazioni dell' eugenetica e a parte l' ideologia «ingenua» che contrapponeva la ruralizzazione nello stravillaggio ecologico all' urbanesimo della stracittà inquinata, i medici garanti della sanità della «stirpe» furono attivamente impegnati nelle campagne antitubercolari e convintamente partecipi della «bonifica integrale» antimalarica, intervento - quest' ultimo - fino allora il più massiccio e organico nella storia d' Italia. Essi interpretarono la «nuova medicina dell' Italia imperiale» come lotta alle malattie tropicali nelle terre dell' Impero e come lotta in Italia contro quella «malattia di carattere nazionale che è il cancro», definito «bolscevismo cellulare» o, con metafora più pacata, «malattia anti-autarchica».
FONTE:http://archiviostorico.corriere.it/2000/ottobre/25/TERZO_REICH_salutismo_potere_co_0_001025074.shtml
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